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Regionalismo, il parlamento scavalcato
di Massimo Villone da la Repubblica del 16/2/2019
Leggiamo che sul regionalismo differenziato la ministra Stefani dichiara chiusa la fase tecnica. Supponiamo si riferisca alla sua trattativa privata e segreta con i governatori di Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna. Una fase tecnica implica – a nostro avviso – confronti pubblici e aperti fra studiosi, esperti, istituti di ricerca su fatti, cifre, statistiche, proiezioni, con esiti e conclusioni verificabili. Se fosse accaduto, lo avremmo saputo. Al contrario, le carte sono state occultate fino a un paio di giorni fa. La ministra vorrebbe ora tradurre il segreto in una inemendabilità del disegno di legge governativo nel passaggio parlamentare. Circolano notizie di un accordo in tal senso, con un confronto nelle Camere prima del voto in forme da definire. Ma è una soluzione inaccettabile. Il percorso parlamentare rientra nelle prerogative delle Camere e dei loro presidenti, che vogliamo credere non prendano ordini da nessuno. E soprattutto non si può blindare una questione tanto rilevante per il paese. Si richiama l’articolo 8 della Costituzione e la prassi delle leggi sulle intese con i culti acattolici. Ma una prassi non è norma cogente. Nasce dall’esperienza e dai precedenti, e segnala le modalità seguite nel processo decisionale, in quanto aderenti alle circostanze. Per le intese con i culti la inemendabilità – per i precedenti, nemmeno assoluta – vuole assicurare che le minoranze vedano rispettata la propria diversità e separatezza. Invece lombardi, emiliano-romagnoli e veneti non hanno diversità o separatezze da garantire con l’intesa, essendo cittadini italiani come tutti gli altri, con uguali diritti e doveri. Se c’è qualcosa da assicurare, è l’eguaglianza. Ed è assurdo impedire a un parlamentare che per l’articolo 67 della Costituzione rappresenta la Nazione di emendare scelte che toccano la vita di tutti, senza eccezione. Dunque, la prassi va innovata. Diversamente, secondo l’ultima giurisprudenza (ord. 17/2019), si apre per il parlamentare la via del ricorso alla Corte costituzionale per conflitto tra poteri. La emendabilità del ddl recante gli accordi è essenziale alle regioni del Sud per riaprire un confronto cui avrebbero dovuto essere chiamate dal primo momento. Una scorrettezza fraudolenta non sanata dalla teorica possibilità che tutte le regioni analogamente richiedano più autonomia e più risorse. È anzitutto evidente per le risorse, poiché nella finanza pubblica non si moltiplicano i pani e i pesci, ma al contrario si dà ad alcuni togliendo ad altri. Chi nega il danno al Sud e la creazione di cittadini di serie A e B mente sapendo di mentire. Ma non è solo questione di soldi. Ad esempio, le tre regioni vogliono regionalizzare strade, autostrade, porti, aeroporti, ferrovie. Ora lo chiede anche la Liguria. Se la richiesta venisse accolta, a chi e a cosa servirebbe se le altre regioni avanzassero identica pretesa? L’unico esito sarebbe la scomparsa di un sistema nazionale di infrastrutture necessarie alla efficienza del sistema paese. Una efficienza che le regioni meridionali hanno interesse a preservare, perché strumentale alla loro integrazione con la parte forte dell’Italia e con l’Europa. Campania, Calabria, Puglia, Sicilia hanno preso una posizione contraria. Bene. Si aggiunge forse ora l’Abruzzo, con un – cautissimo – governatore neo-eletto. Se vincesse la ministra Stefani, non potrebbero garantire ai propri cittadini eguaglianza in servizi essenziali come sanità, istruzione, trasporti. Né mai avrebbero pari dignità nel confronto con le regioni economicamente più forti. Con oltre 18 milioni di abitanti, sono state il 4 marzo una cassaforte elettorale di M5S. Anche De Magistris si è aggiunto a Sala nella protesta, mentre l’Anci Campania ha chiesto a Fico un supplemento di indagine e riflessione e una procedura legislativa e parlamentare trasparente aperta alla partecipazione. Tutto questo può spiegare la frenata M5S, e il rinvio della decisione in Consiglio dei ministri. M5S chiede una preliminare determinazione dei Lep (livelli essenziali), contesta la connessione tra fabbisogni e capacità fiscale dei territori e l’inemendabilità. Vedremo se e quanto reggerà. Invece, il Pd è afasico, per le convulsioni interne, il pre-accordo Gentiloni e la presenza dell’Emilia-Romagna tra le regioni richiedenti. Il Sud si mobilita. Se non bastasse a bloccare o modificare radicalmente gli accordi, i responsabili troverebbero nel Sud una meritata e disonorevole sepoltura elettorale. Purtroppo, per le loro scelte scomparirebbe anche il Paese che abbiamo conosciuto. Chi non vuole questo affili le armi e scenda in campo.
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