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La premier che non serve al Sud
di Massimo Villone da la Repubblica Napoli del 12/5/2024
A Roma l’8 maggio alcune Fondazioni hanno organizzato un convegno su “La Costituzione di tutti. Dialogo sul premierato”. È stato un confronto tra la dottrina (una parte) e la politica. Da un lato, Giovanni Orsina, Francesco Clementi, Annamaria Poggi, con il supporto di Luciano Violante, dall’altro Giorgia Meloni. Che vince quattro a zero, già sul tempo. I suoi interlocutori parlano da 8 a 12 minuti. Meloni ha un intervento di 51 minuti, che avrebbe fatto la sua figura in un comitato centrale del Pcus. Una passerella che ottiene la cassa di risonanza di una riproduzione quasi integrale sulla TV di stato. Meloni ha celebrato la platea perché non limitata ai soliti addetti ai lavori. Troviamo su queste pagine il presidente De Luca che ironizza su alcuni dei partecipanti. Ne è seguita una polemica con Meloni che era meglio risparmiarci. Era importante, più che la platea, quel che mancava: la voce del no senza se e senza ma, e la considerazione di come il premierato si inserisce nel più ampio quadro del disegno riformatore della destra. Tra i professori merita una menzione speciale Orsina. Possiamo in sintesi ricondurlo all’affermazione che è tutta colpa del fu Pci. Ecco la magagna che portò a una centralità parlamentare sacralizzata e ad una parallela debolezza del governo, che hanno pesato sulla nostra storia. Mentre in un paese che già non è un paese per giovani “non possiamo restare impiccati a una lettura della Costituzione che si è affermata per ragioni politiche quando nascevano gli italiani che oggi stanno andando in pensione”. Un riassunto illuminante della storia costituzionale della Repubblica. Un po’ meglio gli altri professori, dai quali comunque viene una sagra di ni e sì però. Lo stesso vale per Violante. Posizioni deboli di fronte alla proposta di Meloni, ribadita nella sua semplicità: elezione diretta del premier per la legislatura, come chiave della governabilità e della stabilità, per mettere fine ai ribaltoni, ai governi tecnici, alle maggioranze arcobaleno. Richiama nella precedente legislatura i governi gialloverde, giallorosso, Draghi. Peccato che nessuno degli interlocutori abbia pensato di sottolineare che anche l’ultimo emendamento consegnato agli atti i ribaltoni li consente. Per intenderci, avrebbe precluso a Conte e Draghi di accedere alla poltrona, ma non al governo giallorosso di succedere a quello gialloverde. Soprattutto, nessuno ha speso una parola sull’Autonomia differenziata. Eppure, non si può seriamente declinare il premierato senza tenerne conto. L’Autonomia differenziata è un elemento decisivo nel disegnare la figura del premier e più in generale la forma di governo. Individua i poteri, le funzioni e le risorse di cui disporranno Palazzo Chigi, Montecitorio e Palazzo Madama dopo il salasso a favore della periferia. Definisce il perimetro delle politiche nazionali strategiche ed effettivamente possibili per il sistema-paese, la riduzione dei divari territoriali e delle diseguaglianze. Oggi, se vogliamo sapere chi, come e per quale progetto politico ci governerà a Roma, dobbiamo sapere cosa rimane a Roma. E su questo dovrebbero concentrarsi le opposizioni nel tempo disponibile prima dell’avvio in concreto dell’Autonomia differenziata. Che potrebbe anche essere subito dopo il voto europeo. Il che suggerisce che debba essere fin d’ora un tema della campagna elettorale. Bisogna chiedere alla Meloni se limiterà il negoziato sulla maggiore autonomia richiesta dalle regioni, per la tutela dell’unità giuridica ed economica e delle politiche pubbliche prioritarie (art. 2.2 ddl Calderoli). Il ministro la diffida a non farlo. Vincerà? Giorgetti ci dirà se come e quando i Lep (livelli essenziali delle prestazioni) saranno di fatto finanziabili, con la finanza pubblica nel mare grosso? Calderoli, dominus della trattativa con gli esecutivi regionali, ci dirà cosa vuole trasferire nell’immediato nelle materie e/o funzioni non assoggettate a Lep? E cosa sopravvive per la norma transitoria (art. 11.1) del negoziato già svolto con Lombardia, Veneto, Emilia-Romagna? I preaccordi del 2018, o le ben più ampie bozze di intesa della leghista Stefani al tempo del governo gialloverde? Forse anche Giorgia Meloni capirà che il premier a lei caro, per cui punta a un referendum, non sarebbe uguale a quello di oggi. Potremmo anticipare, smagrito e macilento. Ma non ci aspettiamo certo che lo dica prima del voto europeo. Quanto a quella parte delle opposizioni che si ostina a proporre mediazioni improbabili, suggeriamo di evitare un remake di Jannacci: “Vengo anch’io! No, tu no”.
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