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La minaccia delle riforme. Torniamo a Milano, non per scaldare i cuori
di Massimo Villone dal Manifesto del 4/4/2024
Merita sostegno la proposta del manifesto di tornare a Milano il 25 aprile. Data cruciale per la nuova Italia fondata sui valori che il fascismo aveva negato: libertà, diritti, eguaglianza, solidarietà, pace. Tradotti in una Costituzione che ha nel Dna antifascismo e Resistenza. Oggi autonomia differenziata e premierato sono chiavi principali di un’Italia a immagine della destra. Si aggiunge la giustizia. E la maggioranza accelera. Il 29 aprile il disegno di legge Calderoli è in Aula, dove saranno contingentati i tempi per un voto finale entro le europee di giugno. È la bandiera della Lega, mentre Giorgia Meloni ha il premierato. La prima commissione del senato è in corsa per un voto finale dell’Aula in prima deliberazione entro la medesima data. Approva l’articolo 3 del disegno di legge cancellando il premio al 55%, ma confermando l’impianto del premier eletto direttamente con la “sua” maggioranza. Quale strategia di contrasto? Al disegno di legge Calderoli – legge sulle procedure – potranno fare seguito immediatamente leggi approvative di intesa per la maggiore autonomia di singole regioni. Zaia ci informa che invierà una lettera a Giorgia Meloni per aprire il negoziato «il giorno dopo» il voto finale «in una logica di graduale modularità» (Gazzettino, 31 marzo). Parte dalle nove materie subito devolvibili, in quanto non condizionate ai livelli essenziali delle prestazioni (Lep). Vanno dai rapporti internazionali e con l’Ue al commercio con l’estero, dalla previdenza complementare e integrativa alle professioni, dalla protezione civile al coordinamento della finanza pubblica, e altro ancora. Secondo uno studio, comprendono 184 funzioni statali (su 500 in totale), cui vanno in realtà aggiunte le funzioni non-Lep nelle materie-Lep. Su questo Zaia vuole negoziare, avviando comunque il confronto anche sulle restanti 14 materie. Più che abbastanza per disarticolare il paese. L’accelerazione in parlamento e Zaia ci dicono che l’argine va alzato ora. Un referendum abrogativo è a rischio inammissibilità, e probabilmente non arriverebbe comunque al voto prima del 2026. L’ho già scritto anche su queste pagine. Per questo ho proposto che una o più regioni sollevino subito ricorso davanti alla Corte costituzionale, nei sessanta giorni successivi alla pubblicazione della legge. Ci sono solidi motivi per il ricorso. Si legge ad esempio nella memoria Bankitalia per l’audizione in prima Commissione (27 marzo) che tra quelle devolvibili ci sono materie «difficilmente qualificabili come beni pubblici locali» nonché «competenze che in alcuni casi (come ad esempio per le politiche energetiche o quelle ambientali) richiedono un coordinamento nazionale e sovranazionale». Considerazioni che possono bene tradursi in vizi di costituzionalità prospettabili da parte di una regione. È inaccettabile che mai sia emerso un orientamento della maggioranza sulle funzioni da non trasferire, per la salvaguardia di politiche nazionali strategiche. Una domanda in question time a Calderoli sulle interlocuzioni già intervenute con qualche regione non guasterebbe. È mai possibile che sull’autonomia si proceda senza un esplicito indirizzo parlamentare o di governo? Il disegno di legge Calderoli affida la tutela di quelle politiche al premier. Si chieda a Giorgia Meloni come e quanto intenderà difendere la patria e la nazione che tanto ama citare. Fingerà ancora per molto di ignorare che funzioni e risorse trasferite in periferia svuotano il parlamento, il governo e in specie il primo ministro onnipotente che vorrebbe a palazzo Chigi? Il premierato andrà contrastato con il referendum costituzionale. In ogni caso, non sarebbe una risposta. Per i tempi tecnici della revisione costituzionale potrebbe vedere la luce a cose in buona parte già fatte per l’autonomia differenziata. Ne verrebbe un’Italia assemblaggio di staterelli semi-indipendenti, appesantita dal moltiplicarsi delle burocrazie e delle regolamentazioni, segnata da divari territoriali, diseguaglianze e conflittualità interregionali, con un primo ministro travicello. Che mai potrebbe riunificare il paese frammentato e, secondo il Meloni-pensiero, «rivoltato come un calzino». Non è solo un tradimento della Costituzione del 1948. È persino una scelta antistorica, come si trae dall’esperienza della pandemia e dai devastanti scenari geopolitici in atto. È un disastro per l’Italia. Per questo, oltre che per riscaldare i cuori con la celebrazione, bisogna tornare a Milano il 25 aprile.
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