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Le pericolose scatole vuote dell’autonomia differenziata
di Massimo Villone dal Manifesto del 25/11/2022
Legge di bilancio Era prevedibile che da un governo di destra venisse una legge di bilancio di destra. «Dimenticati» e «opzione mamma» non sorprendono. Lo stesso vale per l’autonomia differenziata. La ritenevamo in standby dopo il fermo a Calderoli imposto da un perplesso vertice di maggioranza e le censure avanzate in specie dal Mezzogiorno. Da ultimo, anche Mattarella ha speso sagge parole per la coesione e l’unità del paese nell’assemblea dell’Anci. Non è bastato. Nella bozza di legge di bilancio che circola in rete, a quanto leggiamo approvata in Consiglio dei ministri, troviamo tre articoli rilevanti. Il 122, sull’adeguamento alle scadenze previste dal PNRR, il 123, sulle procedure di adozione dei fabbisogni standard, e soprattutto il 125: “Determinazione dei LEP ( Livelli essenziali delle prestazioni) ai fini dell’attuazione dell’articolo 116, terzo comma, della Costituzione”. Riflettono esattamente alcune tra le principali censure rivolte contro il progetto Calderoli di legge di attuazione dell’art. 116.3. Cosa accomuna i tre articoli? Il fatto che al momento esistono solo i titoli. Sono scatole vuote. Ma la comparsa nel testo non è irrilevante. Se la bozza è stata approvata così in Consiglio dei ministri, si legittima il sospetto di un inserimento frettoloso per tamponare il fallimento del blitz Calderoli. Magari con l’intento leghista di ribadire che non esiste nessuna contemporaneità tra il progetto a lungo termine del presidenzialismo caro a Fratelli d’Italia, e l’autonomia che la Lega vuole, tutta e subito. Ci aspettiamo allora un seguito. Quale? Potremmo fare l’ipotesi che con l’alta velocità propria della legge di bilancio si punti a procedimentalizzare in qualche modo costi standard e Lep, per poi ripartire subito dopo con il progetto Calderoli argomentando di aver risposto così alle critiche che lo hanno fermato. Ma sarebbe solo una cortina fumogena, perché la questione da affrontare non è quale procedimento, ma quale contenuto di merito. Un esempio sui Lep. Supponiamo che le città A e B abbiano un numero di posti disponibili per asili nido pari al 30% della popolazione in età 3 mesi-3 anni la prima, e l’1% la seconda. O un numero di assistenti sociali pari a 1 ogni 1000 abitanti la prima, e uno ogni 15.000 la seconda. Essendo politicamente impraticabile togliere posti di asili nido o assistenti sociali alla prima per destinare le risorse così liberate alla seconda, si può solo aumentare le disponibilità nella città B. Ma dove si colloca il livello che si definisce «essenziale»? Al 15% e 5000 abitanti rispettivamente? O al 10% e 3000? O al 20% e 10000? La scelta è politica, non tecnica, e comunque pesa sul bilancio. Qualsiasi seria applicazione dei Lep, su un ambito di servizi abbastanza vasto perché sia significativa, comporta una distribuzione di risorse pubbliche assai più favorevole ai territori svantaggiati. Ecco la vera ragione per cui ai Lep per oltre venti anni dalla riforma 2001 del Titolo V non si è messo mano. Ecco perché è pubblicità ingannevole procedere a invarianza di spesa, come avrebbe preteso di fare il defunto progetto Calderoli. Ecco perché è altresì pubblicità ingannevole l’intento di procedere in velocità, come traspare dalla bozza di legge di bilancio. La crescita del paese per i prossimi anni rimarrà a zero virgola o nei dintorni, laddove per attaccare i divari si richiede una crescita sostenuta e duratura che generi le risorse utili per la redistribuzione territoriale. Diversamente, la promessa di abbandonare la spesa storica per costi standard e Lep è poco meno che truffaldina. Si aggiunga che i più perfetti Lep non impedirebbero di regionalizzare la scuola, architrave dell’identità nazionale, o le infrastrutture strategiche materiali e immateriali, dalla sanità all’energia ai trasporti all’ambiente al lavoro e altro ancora. Che richiedono politiche pubbliche nazionali difficili o impossibili in un paese arlecchino, e tuttavia necessarie per il rilancio del sistema produttivo nei territori in ritardo, e cioè in specie nel Mezzogiorno. È la tesi del secondo motore, indispensabile a far correre tutto il paese, a vantaggio del Sud ma anche del Nord. Così si riunifica il paese. È pura illusione che l’investitura diretta di chi governa porti all’unità un’Italia fatta di repubblichette semi-indipendenti. Nelle società di oggi l’elezione diretta spacca, non unifica. Sarebbe forse meno divisivo un presidente Meloni eletto in un modello simil-francese? Ci permettiamo di dubitarne.
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