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L'abbaglio del ministero trasferito a Milano
di Massimo Villone da la Repubblica Napoli del 7/9/2022
Come si poteva prevedere guardando al calo nei sondaggi, la Lega torna ad essere il sindacato del Nord. La proposta di Salvini del ministero a Milano è emblematica. È un remake del film del 2011, quando fu annunziato con clamore il trasferimento in terra lombarda di alcuni pezzi della macchina statale. Un tentativo che suscitò il dissenso del presidente Napolitano, e poi rapidamente affondò insieme al governo Berlusconi nella tempesta finanziaria che seguì da lì a poco. Questo se non si vuole ricordare il parlamento padano della prima Lega secessionista, in cui troviamo nel 1997 Salvini eletto con una lista di Comunisti padani che ottenne 5 seggi su 210. Nel merito della proposta basterà dire che in una amministrazione moderna e digitalizzata il luogo fisico in cui si trovano le strutture non rileva. L'efficienza si misura sullo schermo del computer, e non con la distanza da questo o quell'ufficio. Ad oggi, lo spostamento di una struttura può essere difficile e costoso da realizzare, senza benefici apprezzabili. Ma Salvini ha inteso lisciare il pelo a quella parte assai consistente della Lega che non ha condiviso le sue scelte come segretario. Si sussurrano le cifre minime - 12-13% -nel voto del 25 settembre, sotto le quali potrebbe partire un assalto alla segreteria da parte di Zaia o Fedriga. Anche il sorpasso da parte di M5S sarebbe un serio problema. Quindi la mossa di Salvini si capisce. Ma colpisce che si accodi anche il sindaco Sala. E fa impressione che salga sul carro un Cottarelli, sommo fustigatore dello spreco di denaro pubblico. E ben vero che ha speso qualche parola di cautela. Ma il coraggio di dire che è una sciocchezza proprio non l'ha avuto. E colpisce che il sistema politico locale si sia subito allineato sulla proposta, benché di chiaro sapore elettoralistico. Nel Sud, una uguale capacità di fare squadra a tutela dell'interesse locale proprio non si vede. Abbiamo a Napoli l'AGCom. che nel tempo ha progressivamente gravitato sempre più su Roma e la cui sede napoletana è ormai ridotta a poco più che un ectoplasma. La mossa di Salvini - che insiste anche sull'autonomia - è tassello di un più ampio mosaico, in cui il Sud proprio non c'è. Leggiamo addirittura di fondi Ue per il Sud bloccati da ministri leghisti. Che smentiscono senza smentire alcunché, con la risibile motivazione che il fermo deriva dal limite degli affari correnti come declinato nella direttiva di Draghi. Quindi il governo può dare piena attuazione al Pnrr, ma non sbloccare fondi che perseguono in ultimo le stesse finalità. Può addirittura fare passi decisivi nella vendita di Ita (ex Alitalia), nonostante sia nota la contrarietà dei probabili vincitori nel voto del 25 settembre. Facendo esattamente quel che è precluso al governo dimissionario: condizionare le scelte di chi verrà poi. Sono segnali di una perdurante minorità del Mezzogiorno. È un vero paradosso, posto che il Sud sarà probabilmente decisivo per l'esito del voto. Dopo il pellegrinaggio in terra leghista, Letta viene al Sud per diffondere il verbo Pd. Si dice che la sua personale soglia di sicurezza come segretario sia intorno al 30% nei voti, e non dubitiamo delle sue buone intenzioni. Del partito, però, dubitiamo. Continua in specie l'ambiguità sull'Autonomia differenziata, che sarà il vero banco di prova di una progettualità per il Sud. Piero Fassino, piemontese paracadutato, dichiara che il Veneto "aspira legittimamente alla maggiore autonomia prevista dalla Costituzione ... sono, da sempre, un federalista convinto ... l'autonomia differenziata non è uno strappo: è contemplata dalla Costituzione nel quadro dell'unità nazionale e io mi impegnerò con il mio partito affinché diventi realtà" (Nuova Venezia, 4 settembre). Persino Marcello Pera, nonostante l'accordo-scambio tra presidenzialismo e autonomia della destra, dice un no deciso alle "repubblichette". Per non parlare di Speranza, e di esponenti della sinistra sparsa. Ci perdonerà Letta, ma non ci sentiamo affatto rassicurati dal candidato Fassino, personaggio di peso e dirigente storico del Pd. Sappiamo tutti che il Veneto, seguito da Lombardia ed Emilia-Romagna, chiede proprio uno status di "repubblichetta". E Bonaccini è sempre ai blocchi di partenza per la segreteria. Dunque auspichiamo che dai candidati Pd e coalizzati nel Sud vengano accenti diversi. La Cei e monsignor Savino hanno detto sull'Autonomia differenziata parole definitive in termini di pari dignità e diritti eguali. Laici come siamo, vorremmo affidarci alla politica, e non alla preghiera.
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