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Il Recovery fund questione parlamentare più che ministeriale
di Massimo Villone dal Manifesto del 30/7/2020
Il Senato ha approvato il 28 luglio, con 157 voti a favore e 125 contrari, la risoluzione di maggioranza sulla proroga dello stato di emergenza. Si impegna il governo a porre come termine il 15 ottobre, a definire con norme di rango legislativo le limitazioni di libertà fondamentali, a coinvolgere il Parlamento. I voti al di sotto della fatidica soglia della maggioranza assoluta di 161 potevano far temere un passaggio faticoso in Senato dello scostamento di bilancio. Che è stato invece approvato con comodo margine: 170 favorevoli, 4 contrari, 133 astenuti. La risoluzione sulla proroga riprende critiche e dubbi avanzati da più parti. Era necessario scendere nell’arena parlamentare? Probabilmente no. Forse in luogo della proroga poteva bastare una normetta in un qualsiasi decreto-legge di passaggio più o meno scritta così: “Sono prorogati fino al 15 ottobre 2020 i termini in scadenza al 31 luglio 2020, o comunque alla fine dell’emergenza dichiarata il 31 gennaio 2020”. A voler essere perfetti, si potevano elencare decreti e ordinanze. Cosa da poco, per aule abituate a decreti “milleproroghe”. In ogni caso, i dubbi sulla piena conformità alla Costituzione non giungono al punto di dare sostanza alle accuse di derive liberticide. Invece, è bene che il parlamento dia il segnale di voler recuperare un ruolo. Conte richiama “scelte che il Governo ha sempre condiviso con il Parlamento, presentandosi davanti alle Camere, alla vigilia di ogni decisione”. Ad essere generosi. è una mezza verità. Perché quelle scelte sono state piuttosto elaborate a Palazzo Chigi, magari in cabine di regia o conferenze, e in genere portate alle Camere con informative cui non è seguito un voto. E che un dibattito con voto su un atto di indirizzo sia cosa ben diversa dalle informative lo dimostra proprio la risoluzione approvata, che pone al governo paletti precisi. Ma la proroga dell’emergenza si mostra come la coda di una vicenda in esaurimento. La partita vera che ora si apre è quella della governance dei 209 miliardi in arrivo, cui potrebbe aggiungersi il Mes. Si è già riunito il Comitato interministeriale per gli affari europei (Ciae), in cui Palazzo Chigi vorrebbe convogliare la gestione dei fondi Ue. È in agenda una nuova riunione con i “tecnici”. Il Ciae è composto dal premier, che lo convoca e lo presiede (o delega a tal fine il ministro per gli affari europei), dal ministro dell’economia, da quello per gli affari esteri, e di volta in volta da altri ministri in ragione della competenza. Della coalizione di governo, Pd e 5S sarebbero sempre a presidiare il tavolo, e gli altri partners invece solo se coinvolti ratione materiae. Un vertice comunque ristretto. Inoltre, il regolamento del Ciae (decreto del Presidente della Repubblica 118/2015) dispone all’art. 3, comma 2, lett. c, che viene assicurata “la pubblicità delle riunioni nelle forme e nei modi di volta in volta stabiliti dal Ciae”. Rischiamo di entrare in una galleria buia, in cui è difficile sapere chi ha voluto cosa e perché. È già accaduto con l’emergenza sanitaria, e la cacofonia di comitati, cabine di regia, conferenze. Qui vediamo la fondamentale differenza con lo scenario parlamentare, dove tutto è visibile e documentato, con piena responsabilità politica di chi decide. Trasparenza e responsabilità sono strutture portanti necessarie di qualsiasi percorso che voglia puntare a un paese nuovo e diverso. Ci saranno passaggi difficili, in settori cruciali come la scuola e la sanità, e nella distribuzione delle risorse tra territori, ceti sociali e professionali, imprese. C’è da decidere se far ripartire il Sud come secondo motore del paese, come vorrebbe il Piano per il Sud 2030 del ministro Provenzano, o rilanciare la locomotiva del Nord, come vorrebbero Zaia e – con pochi distinguo – Bonaccini. C’è da valutare la compatibilità tra il Recovery Plan – anticipato nell’essenza dal Programma Nazionale di Riforma del Def 2020 presentato l’8 luglio – e l’autonomia differenziata che Boccia vuole portare in Parlamento già nel mese di settembre, e che lo stesso governo conferma nel Programma di voler perseguire. Sono questioni che toccano la vita di ogni uomo o donna nel paese. Che Conte sciolga i nodi – posti dall’occasione unica e irripetibile delle risorse disponibili – in solitudine, o nella conventicola del Ciae, non è accettabile. Conte lascia intravedere un percorso parlamentare, che però va costruito. Temiamo le oscurità di una cabina di regia in cui non è dato capire chi è il regista, né chi scrive il copione. Vedremo se il voto sulla proroga è stato un refolo debole e passeggero, o un vento capace di riempire le vele di un paese che vuole cambiare rotta. Talvolta questo parlamento non ci piace. Ma è pur sempre meglio di un comitato interministeriale.
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