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Lo Stato ha rinunciato alla sanità
di Massimo Villone da la Repubblica Napoli del 11/6/2020
Il presidente Mattarella lancia, nella sua dichiarazione del 7 giugno sui 50 anni delle Regioni ordinarie, un forte richiamo alla coesione e all’unità del Paese, che evidentemente considera a rischio. Usa parole forti: «Non vincerà da solo un territorio contro un altro». Sottolinea la necessità che pluralismo e sussidiarietà «concorrano alla realizzazione dei principi fondamentali di solidarietà e di uguaglianza sanciti dalla Costituzione». Giusto. Ma non basta l’appello ai buoni sentimenti. Si impongono politiche asimmetriche volte a ridurre il ritardo dei territori più deboli. Il punto è che da un quarto di secolo l’Italia fa il contrario, come l’aspro dibattito sul regionalismo differenziato aveva già ampiamente dimostrato. La crisi Covid ha acceso un faro sulla devastante distanza tra i sistemi sanitari delle Regioni più forti rispetto alle altre, e sugli errori commessi nella strategia di contrasto al virus. Sul punto il Rapporto 2020 della Corte dei conti sul coordinamento della finanza pubblica (in specie Parte III, pag. 285 ss.) reca censure pesanti. Ed è una cortina fumogena il supposto «odio verso i lombardi», avallato anche da personaggi pur autorevoli come De Bortoli (Huffington Post, 7 giugno). Da più parti si vorrebbe riportare allo Stato il diritto alla salute. I governatori alzano muri. Dicono no Zaia (Corriere della sera, 19 maggio), Bonaccini (Stampa, 17 maggio), Toti (La Verità, 1° giugno), De Luca, AgiNews, 3 aprile), e da ultimo Rossi (Stampa, 8 giugno). Radicali riforme costituzionali sulla sanità sono improbabili. La vera domanda è: un ruolo più forte dello Stato è possibile a Costituzione invariata? Lo Stato ha potestà legislativa esclusiva sui livelli essenziali, tra cui certamente quelli relativi al servizio sanitario (art. 117, comma 2, lettera m). Ha potestà legislativa concorrente, con la determinazione dei principi fondamentali, per la tutela della salute (art. 117, comma 3). Può attuare interventi volti a fini di perequazione territoriale (art. 119, comma 4). Nel contesto della pandemia vanno anche menzionati l’art. 117, comma 2, lettera q), che attribuisce allo Stato una potestà legislativa esclusiva in materia di profilassi internazionale; e l’art. 120, comma 2, che prevede un potere sostitutivo del governo nei confronti di Regioni ed enti locali (all’art. 120 è stata data attuazione con la legge 131 del 2003). La Costituzione vigente non ha impedito né impedisce un ruolo forte dello Stato nella sanità in generale, o nel contrasto alla pandemia in specie. Piuttosto, lo Stato ha largamente rinunciato ad esercitare i poteri di cui dispone. La politica sanitaria è emersa di fatto dalle conferenze Stato-Regioni, in cui lo Stato ha sostanzialmente limitato il proprio ruolo al contenimento della spesa, lasciando gli indirizzi di politica sanitaria a una dialettica tra Regioni in cui hanno vinto quelle più forti. Dice Rossi che da anni «l’unico riferimento per le Regioni è il ministero del Tesoro, che si preoccupa del controllo della spesa. Come se allo Stato non interessasse niente altro» (Stampa, 8 giugno). È mancata una politica sanitaria nazionale, ad esempio sugli ospedali e sulla medicina di territorio, e le diseguaglianze trovano origine proprio nella Conferenza Stato-Regioni. Poco importa ora accertare se sia colpa della protervia e arroganza del ceto politico del Nord, o della subalternità ed ignavia di quello del Sud. Conta che una politica nazionale si può, se si vuole, ritrovare. L’appeasement verso le Regioni - trademark del ministro Boccia - ha concorso a produrre la cacofonia istituzionale nell’avvio della Fase 2. È un preoccupante messaggio di debolezza, che può estendersi alla crisi economica. Non sono irrilevanti le reazioni negative di forze della maggioranza verso il piano Colao e gli stati generali, entrambi voluti da Conte. I segnali di debolezza hanno anche già favorito il risveglio dell’autonomia differenziata. Zaia dice che il coronavirus «ha cambiato lo standing delle regioni», e chiede che la trattativa riparta al più presto (Corriere del Veneto Venezia-Mestre, 9 giugno). Toti vuole mettere le mani su infrastrutture e porti (Secolo XIX, 8 giugno). Per contro, Zingaretti nella direzione Pd dell’8 giugno richiama «l’errata considerazione del mezzogiorno solo come un peso», e «l’esaltazione territoriale regionalistica». Parole interessanti, svuotate però dalla mancanza di indicazioni operative. Un lip service, direbbero gli inglesi, e tutto secondo copione. Andando avanti così, è alto il rischio che il monito di Mattarella cada nel vuoto.
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