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Gli effetti della pandemia sulle istituzioni e gli equilibri costituzionali
di Massimo Villone su Oltre il Capitale (N° 4 - Maggio 2020)
La crisi del coronavirus ha inferto al Paese colpi che sarà difficile dimenticare, come per i morti, o riassorbire, come per i posti di lavoro perduti o i milioni di nuovi poveri. Ci ha fatto conoscere un regime di compressione di diritti e libertà quale mai avevamo sperimentato nell’esperienza repubblicana. Ha posto domande nuove, che possiamo riassumere per alcuni tratti essenziali. I . Il quadro di riferimento costituzionale dell’emergenza La Costituzione non detta una specifica disciplina per l’emergenza. Il silenzio dei costituenti sul punto non fu casuale dimenticanza. Fu una scelta voluta e consapevole, in specie per il ricordo dell’esperienza – allora recente – della Costituzione di Weimar, il cui art. 48 con la previsione di poteri eccezionali del Presidente del Reich aveva favorito l’ascesa al potere con mezzi formalmente legali di Hitler. Ma la mancata previsione di un regime speciale non comporta l’impossibilità di fronteggiare l’emergenza con gli strumenti disponibili. Anzitutto, l’art. 77 prevede i decreti-legge, provvedimenti provvisori con forza di legge adottati dal governo “in casi straordinari di necessità e di urgenza”, che entrano immediatamente in vigore e perdono efficacia sin dall’inizio se non convertiti in legge entro sessanta giorni dalla pubblicazione. Parallelamente, le norme che disciplinano libertà e diritti fondamentali consentono limitazioni riferite in specie a motivi di sanità, di sicurezza, di incolumità pubblica, e fondate in vario modo sulla legge. Ovviamente, libertà e diritti non possono subire compressioni oltre il tempo indispensabile a fronteggiare l’emergenza. E i limiti imposti devono comunque rispondere a criteri di necessità, proporzionalità, ragionevolezza. Sui due fondamenti del decreto-legge e delle limitazioni consentite con riferimento alla legge si articola la strumentazione costituzionale idonea a rispondere a situazioni di emergenza. Ne segue che nella risposta all’emergenza è centrale il ruolo del parlamento, cui spetta la conversione del decreto legge, ed è comunque riservata, pur in misura variabile, la determinazione dei limiti imposti a diritti e libertà costituzionalmente protetti. II. I decreti del Presidente del consiglio dei ministri Peraltro, nella risposta all’emergenza ha di fatto assunto un ruolo primario uno strumento sub-legislativo: il decreto del presidente del consiglio dei ministri (DPCM). Mentre il decreto-legge è sottoposto a un preliminare controllo di “manifesta incostituzionalità” da parte del capo dello Stato in sede di emanazione, e poi al vaglio delle Camere in sede di conversione, il DPCM – atto amministrativo – si sottrae ad entrambi questi momenti. Diventa evanescente la verifica della compatibilità costituzionale dei limiti posti a libertà e diritti. Parallelamente, viene marginalizzato il parlamento, cui invece dovrebbe riconoscersi una ineliminabile centralità. Invece, il premier Conte si è limitato a “informative” alle Camere, nemmeno seguite da un voto volto a evidenziare gli orientamenti delle assemblee. A seguito delle polemiche sorte per l’eccessivo ricorso ai DPCM e l’emarginazione del parlamento, Conte ha inteso difendere la scelta nell’informativa del 25 e 26 marzo. Gli argomenti sono stati essenzialmente due. Anzitutto, la necessità di adottare atti con la rapidità e la flessibilità imposta da circostanze mutevoli e largamente imprevedibili. Inoltre, la sufficienza del fondamento legislativo dato dal Codice della protezione civile (decreto legislativo 1/2018 e successive modificazioni) e dai decretilegge comunque adottati dal governo in parallelo con i DPCM. In particolare, con il decreto-legge 19/2020 sarebbe stato riordinato e condotto a sicura compatibilità con la Costituzione il quadro complessivo degli atti adottati. Se però si guarda al D.L. 19/2020, si nota che esso reca un lungo elenco di situazioni e attività per cui si ammette la possibilità di interventi limitativi da parte dei pubblici poteri. Le limitazioni, peraltro, sono concretamente disposte non dallo stesso decreto, ma successivamente da atti ulteriori e diversi, e specificamente dai DPCM, oltre che in alcuni casi da atti di altra autorità. E dunque il fondamento legislativo del limite è più apparente che reale. Si è manifestata da ultimo una spinta a “parlamentarizzare” la gestione della crisi, e lo stesso Conte ne ha fatto menzione. Si discute, tra l’altro, della possibilità di portare alle Camere i DPCM prima dell’adozione da parte del Presidente del consiglio, al fine di giungere a un voto di indirizzo. Ma, a quanto si apprende, si tratterebbe comunque di un parere solo eventuale, né obbligatorio né tanto meno vincolante. Quindi, se anche la proposta si consolidasse, l’emarginazione delle assemblee rappresentative ne risulterebbe comunque solo in minima misura corretta. Appare necessario, invece, ampliare il fondamento legislativo primario, e parallelamente ridurre l’ambito di discrezionalità fin qui riconosciuto ad atti sub-legislativi. Risulta invece al momento bloccata la spinta al voto a distanza. Sarebbe stata una decisione incostituzionale e un pericoloso precedente, incidendo sul voto, diritto inalienabile essenziale nella funzione di ciascun parlamentare, e gravando negativamente, come corollario, sulla funzione di rappresentanza propria dell’assemblea. III. La babele istituzionale La crisi ha visto una grande quantità di atti adottati da pubbliche autorità di varia natura e livello. Oltre ai decreti-legge e ai DPCM, infatti, si contano a molte centinaia i decreti, le ordinanze, le direttive, le circolari, i chiarimenti di ministri, protezione civile, commissari, governatori, sindaci. Il diritto dell’emergenza è cresciuto fino a diventare un groviglio inestricabile di norme che si susseguono, spesso si sovrappongono e si contraddicono. Solo l’ultimo decreto “Rilancia Italia”, appena adottato dal consiglio dei ministri, si misura a centinaia di pagine. Una cacofonia istituzionale che soprattutto con l’avvio della fase 2 è diventata insopprimibile, e si è tradotta sul piano delle carte bollate. Il ministro Boccia ha impugnato un’ordinanza della presidente della Calabria Santelli, che ha tirato dritto per la sua strada. Sindaci calabresi – in prevalenza di centrosinistra – hanno disapplicato con propria ordinanza quella della presidente Santelli. Si delineano tifoserie istituzionali di opposto schieramento politico, con regioni ed enti locali governati dal centrodestra all’attacco del governo. Per un verso era scritto. Viene ora in primo piano la crisi economica, con situazioni e interessi diversificati. Pesano i ritardi nel sostegno a imprese e famiglie. Per governatori e sindaci essere protagonisti è una carta preziosa nella politica locale, specie in uno scenario pre-elettorale. Non vogliono lasciare l’iniziativa a Palazzo Chigi. Ci sono alternative alla via giudiziaria? Sì. L’articolo 120, co. 2, della Costituzione prevede che il governo possa sostituirsi a organi di regioni ed enti locali. Tra i casi previsti rientra certo il coronavirus. La legge 131/2003 disciplina l’esercizio di tale potere. In particolare, per l’art. 8, co. 1, “il Consiglio dei ministri, sentito l’organo interessato ... adotta i provvedimenti necessari, anche normativi, ovvero nomina un apposito commissario”. L’articolo 8 al comma 4 dispone inoltre: “Nei casi di assoluta urgenza ... il Consiglio dei ministri ... adotta i provvedimenti necessari”. Il governo potrebbe sostituirsi anche nell’esercizio dell’autotutela. Nella specie, avrebbe potuto in via di sostituzione revocare l’ordinanza SanteIli su bar e ristoranti. In una intervista (Messaggero, 3 maggio) alla domanda “potevate revocare l’ordinanza?” Il ministro Boccia risponde “Sì, con i poteri sostitutivi, siccome però abbiamo voluto essere rigorosi ma collaborativi, impugnando diamo alla Santelli ancora una chance”. Argomento debole. Ma in linea con la strategia di appeasement che il ministro mostra di preferire, come è accaduto con l’autonomia differenziata. È diffusa l’opinione che uno dei punti deboli del Titolo V riformato sia la mancanza di una supremacy clause a favore dello Stato. Il Titolo V riformato cancellò nel 2001 l’interesse nazionale come limite alla potestà legislativa delle regioni ordinarie. Fu un errore. Dobbiamo prendere atto che senza il riconoscimento di un interesse nazionale in ogni momento prevalente una Repubblica una e indivisibile non può esistere. Potrebbe essere opportuno introdurre una supremacy clause generale, ma almeno per l’emergenza possiamo ritenere che la clausola già esista. Il governo ha invece scelto di non avere – o di non esercitare – una supremazia, puntando al consenso nelle cabine di regia e nelle conferenze statoregioni-enti locali. Ma così ha reso evanescente il proprio indirizzo anti-crisi. Il paese arlecchino e il fai da te in ultima analisi nascono qui. Il Tar Calabria ha bocciato l’ordinanza Santelli, ma le carte bollate potrebbero essere una pistola in buona parte scarica. Tra una diffida e il termine per adempiere, la risposta dell’amministrazione, e la fase giudiziale potrebbero passare settimane. Un esempio su altro versante viene da Bolzano. Per lo statuto – approvato con legge costituzionale – le province autonome hanno ampi poteri legislativi. Con propria legge la provincia di Bolzano ha anticipato praticamente tutte le riaperture. Bisognerà fare ricorso alla Corte costituzionale. Diversamente dal Titolo V riformato nel 2001, lo statuto ancora prevede che la potestà legislativa provinciale su sanità, assistenza, commercio incontri il limite dell’interesse nazionale, oltre che dei principi dell’ordinamento o delle leggi di principio statali. Ma il ricorso sarebbe di fatto inutile, essendo difficile giungere a una pronuncia in pochi giorni prima delle riaperture in via generale. Intanto, la legge rimarrebbe vigente. IV. Eguaglianza e crisi È coerente con la scelta di non far valere una clausola di supremazia pur disponibile, puntando invece sulla concertazione nelle conferenze e nelle cabine di regia, la decisione di affidare alle regioni la riapertura territorialmente differenziata a partire dal 18 maggio, entro linee guida elaborate in sede nazionale. Nella lettura generale, le regioni hanno vinto. Il solo effettivo limite allo sgomitare dei governatori è il divieto di blindare in autonomia e di propria iniziativa i confini della regione, per l’esplicito dettato dell’art. 120, co. 1, della Costituzione. Per il resto, siamo al fai da te regionale. Si segnala una debolezza del governo, che si è trovato di fronte uno schieramento di presidenti di regione decisi a far prevalere le proprie valutazioni di opportunità. Si aggiunge la marginalità delle assemblee rappresentative. Una pandemia è situazione che più di ogni altra giustificherebbe una posizione di supremazia dello Stato. Che però nella specie non riesce ad affermarsi pienamente. Ne segue che è a rischio la capacità di rispondere a esigenze segnalate con forza dalla crisi in atto. Almeno due i punti rilevanti. Il primo. È necessario porre mano a una profonda rivisitazione della sanità pubblica. L’indebolimento dovuto ad anni di tagli, con la perdita di decine di migliaia di posti letto e operatori; la mancata attuazione di piani di prevenzione del rischio pandemico, pur esistenti; il deficit di letti di terapia intensiva rispetto ad altri paesi; il favore per la sanità privata volta al profitto in regioni presuntivamente di eccellenza; il devastante divario infrastrutturale in danno soprattutto delle regioni del Mezzogiorno; tutto ci dice che in realtà il sistema sanitario nazionale era da anni un’etichetta, piuttosto che una realtà. Conte ricorda, nella sua informativa alle Camere del 25 e 26 marzo, che la responsabilità della gestione della sanità ricade sulle regioni. Certo è così, come non è in dubbio che le distorsioni e le carenze trovino origine in massima parte nella conferenza Stato-Regioni, in cui lo Stato ha negli anni pensato essenzialmente a far quadrare i conti, rinunciando a costruire una politica sanitaria nazionale. Quando allo scoppiare della crisi si sono alzate voci volte a riaccentrare sullo Stato la sanità, i governatori – nessuno escluso: Bonaccini, Fatto quotidiano, 6 aprile, e Corriere di Bologna, 22 aprile; Zaia, Corriere della sera, 20 aprile - hanno fatto muro. È comprensibile, visto che per le Regioni la sanità è di gran lunga il piatto più ricco in termini di risorse e di potenzialità di gestione del consenso. Recuperare una politica sanitaria davvero nazionale, a tutela di un eguale diritto alla salute di tutti i cittadini, dovunque risiedano, potrebbe dimostrarsi una missione impossibile, ancor più dopo gli ultimi cedimenti sulla ripartenza differenziata per territori. Il secondo punto. Secondo un’opinione, la crisi Covid-19 dimostra la impraticabilità del percorso fin qui seguito per l’autonomia differenziata. Ma non possiamo escludere che invece nel dopocrisi qualcuno voglia rilanciare l’Italia delle repubblichette con l’argomento: se avessimo avuto l’autonomia saremmo stati più bravi. L’ultimo attacco di Bolzano può accrescere le spinte per il fai da te da parte delle regioni, e rimettere in campo il tema di una maggiore autonomia assimilabile a quelle speciali, da sempre obiettivo ad esempio del Veneto. Né meraviglia che Bonaccini assolva Bolzano da ogni peccato (Libero, 9 maggio). Si potrebbe allora perdere l’occasione per un verso offerta dalla crisi, tornando invece al mantra della locomotiva del Nord su cui concentrare le risorse per consentire che acceleri e si agganci ai paesi forti dell’Europa. La solidarietà che vorremmo nella crisi dalla UE trova ostacolo nelle ambiguità tedesche. Paradossalmente, la Germania cui il separatismo nordista vorrebbe legarsi è la stessa che oggi si oppone agli interventi necessari a fronteggiare la crisi che devasta le regioni del Nord. Si rafforza la tesi che bisogna riattivare il secondo motore del Paese: il Sud. Più che da un astratto omaggio alla Costituzione, è da questa consapevolezza che può venire nuova vitalità alla Repubblica “una e indivisibile”. La solidarietà dovrà essere chiesta, e data, tra italiani, tenendo conto che ci saranno milioni di nuovi poveri, una sanità pubblica gravemente indebolita in larga parte del Paese, un esercito di invisibili, di precari, disoccupati, di lavoratori in nero, con il pericolo reale di infiltrazioni criminali. Dovremo recuperare la consapevolezza che un Paese unito è più forte, e che l’unità richiede una nuova centralità del Mezzogiorno nel sistema-Paese.
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