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Mezzogiorno e autonomia, il rischio di spaccare l’Italia
di Massimo Villone su Trent’anni di Napoli, volume per il trentennale di Repubblica Napoli
1. L’inizio: i pre-accordi e il disegno politico. Il 28 febbraio 2018 il sottosegretario Bressa firmava per il governo Gentiloni un preaccordo sull’autonomia differenziata ai sensi dell’art. 116, co. 3, Cost. con tre Regioni: Veneto, Lombardia ed Emilia-Romagna. Quello stesso giorno, in un articolo titolato “Strategia secessionista della Lega”, censuravo la stipula, poiché il governo a quattro giorni dal voto avrebbe dovuto strettamente limitarsi agli affari correnti. Quell’articolo fu il primo di oltre cinquanta poi pubblicati sulle pagine di Repubblica Napoli sul tema dell’autonomia differenziata. I pre-accordi erano una forzatura politica e istituzionale, su una iniziativa nata a destra. Perché ne facevano parte un esecutivo a guida PD, e una regione storicamente governata dalla sinistra e dallo stesso PD? La risposta è che si trattava di un disegno politico - non solo leghista - di sostanziale separatismo, volto a consentire alla parte più sviluppata del paese di accelerare per agganciarsi all’Europa ed essere competitiva nel contesto globale. La premessa non dichiarata era che non tutto il paese poteva accelerare. Si usava quindi il topos di un Mezzogiorno male amministrato, clientelare quando non malavitoso, volto a depredare il Nord virtuoso ed efficiente del suo “residuo fiscale”. Se ne traeva la necessità di staccare la “locomotiva del Nord” e di liberarla dal peso dei vagoni irrimediabilmente più lenti del Sud. Come? Trasferendo poteri legislativi e funzioni amministrative, e accordando un privilegio nella distribuzione delle risorse pubbliche. Si abbandonavano gli obiettivi della riduzione del divario Nord-Sud e dell’Italia come piattaforma logistica in uno scacchiere euro-mediterraneo, per un nuovo disegno politico, dirompente e incostituzionale. Un disegno non solo leghista, ma trasversale e condiviso dall’Italia dei più forti nella politica e nell’economia. 2. Il governo gialloverde. Con la ministra Stefani le tre regioni ottengono vantaggi sulle risorse pubbliche, ed estendono all’estremo la maggiore autonomia (23 materie per Lombardia e Veneto, 16 per l’Emilia-Romagna). Nelle bozze di intesa si va ben oltre la lettura corretta dell’art. 116, co. 3, Cost., di limitato adattamento dell’autonomia a specificità locali. Veneto e Lombardia tirano la volata, ma l’Emilia-Romagna segue a ruota, e non può autocelebrarsi per una “buona” autonomia differenziata. Il ceto politico assiste sostanzialmente inerte. Ma si oppongono la società civile, esperti, studiosi, analisti. Si evidenziano la incostituzionalità e la insostenibilità per la finanza pubblica. Sale la polemica sui Lep (livelli essenziali delle prestazioni per i diritti civili e sociali) mai fissati, e sulla inattuazione della legge 42/2009 sul federalismo fiscale. Si discute di “secessione dei ricchi”, e di staterelli regionali. Viene in buona parte smentita la vulgata popolare sul Mezzogiorno sprecone, ed emerge invece la realtà di un Nord favorito nella distribuzione delle risorse. 3. Il governo giallorosso. Con il Conte II la parola d’ordine non è l’auspicabile discontinuità, ma il “completamento”. Il ministro Boccia accelera. Probabilmente pesa l’avvicinarsi del voto in EmiliaRomagna, schierata nella pattuglia separatista. Boccia propone una cd legge-quadro, e cerca persino – senza successo - di tradurla in emendamento alla legge di bilancio. Garantirà – nella sua opinione – uniformità. Ma è una strategia geneticamente debole. Anzitutto per lo strumento. La legge-quadro è una legge ordinaria, che non può vincolare una successiva legge parimenti ordinaria. Tale è la legge che approva l’intesa con la regione ai sensi dell’art. 116. Per di più, è una legge cd rinforzata, approvata con uno speciale procedimento, sottratta – per una antica giurisprudenza costituzionale – anche al referendum abrogativo. Qualunque cosa disponga oggi la legge-quadro, non si può escludere che una diversa maggioranza domani, magari consonante con qualche governo regionale, crei situazioni di vantaggio per una o più regioni a danno di altre approvando un’intesa con legge che deroga, modifica, abroga la legge-quadro. Inoltre, la proposta è debole perché punta tutto sui Lep, che non garantiscono eguaglianza, ma al più limitano gli eccessi di diseguaglianza. È debole per un Parlamento marginale nella formazione delle intese. È debole perché - a uno schieramento di regioni del Nord ormai egemonizzato dalla Lega – non dice quale idea di paese e quale lettura dell’art. 116, co. 3, assume a fondamento. Ad esempio, si vuole o no ricondurre la norma a limitati adattamenti alle specificità locali? O porre un limite alla regionalizzazione di infrastrutture strategiche, dalle ferrovie alle autostrade, dai porti agli aeroporti? O escludere dalla regionalizzazione la scuola, essenziale per l’identità stessa del paese? Qui, nei beni culturali, nell’ambiente, nel governo del territorio, nella tutela e sicurezza del lavoro, nelle crisi come quella determinata dal coronavirus, e in altro ancora, è la misura di una necessaria uniformità. Ma la legge-quadro tace. È indispensabile tenere alta la guardia, per il Mezzogiorno, per l’eguaglianza nei diritti, per l’unità della Repubblica. Bisogna far valere l’unità come vantaggio per tutto il paese, e non solo per il Sud. Va contrastata ogni subalternità – di clan, di partito, di schieramento - del ceto politico meridionale. Il ministro Boccia esalta i consensi ricevuti nella Conferenza Stato-Regioni. Ma il confronto va fatto in Parlamento e davanti all’opinione pubblica di tutto il paese.
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