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Manfredi, segnale per il Sud
di Massimo Villone da la Repubblica Napoli del 29/12/2019
Il premier Conte ha risolto con un veloce rimpasto il problema sorto con le dimissioni di Fioramonti. La scelta di Gaetano Manfredi come ministro dell’Università merita una valutazione assolutamente positiva. Questo non solo per un patriottismo di territorio, magari comprensibile, che certo di per sé non basterebbe. Anzitutto, alcune considerazioni di ordine generale. Si può condividere il ritorno alla separazione tra università e scuola. In passato sono state sperimentate entrambe le soluzioni: ministero unico, o sdoppiato. A mio avviso, la diversità e complessità dei problemi e del know how richiesto per affrontarli suggerisce la separazione. Ciò è particolarmente vero considerando che scuola e università sono asset strategici nel rilancio del paese, e che sono investite in modo molto diverso dalla pressione per autonomie differenziate e regionalizzazione. Si richiederà per entrambe una gestione politica e amministrativa appropriata ed efficace, cui una struttura ministeriale ad hoc potrà probabilmente rispondere con maggiore efficacia. È inoltre apprezzabile la scelta di un tecnico. Per quel che sappiamo, Manfredi non ha affiliazioni politiche, ed è dunque la sua figura di rettore del maggiore ateneo del Mezzogiorno e di presidente della Conferenza dei rettori che ha determinato la scelta. La cosa si mostra particolarmente significativa anzitutto considerando la menzione di politici di peso come possibili sostituti di Fioramonti. L’indicazione di Manfredi assume allora un duplice significato. Da un lato, sostituire il ministro dimissionario con un tecnico di indiscutibile autorevolezza e specifica competenza offre un segnale di centralità della materia negli indirizzi di governo. Dall’altro, rassicura quella parte del mondo accademico – gli atenei del Mezzogiorno – che indubbiamente hanno vissuto negli anni della crisi momenti di sofferenza. L’esperienza fatta sarà certamente utile a Manfredi nella sua nuova carica. In effetti, il suo caso dimostra come il tecnico prestato alla politica trovi il suo biglietto di presentazione nel successo conseguito. L’amministratore che si cimenta in un agone più strettamente politico trova le sue migliori referenze nel successo conseguito nell’amministrare. Da questo punto di vista, Manfredi ha le carte in regola. Lascia l’ateneo Federico II in condizioni di salute relativamente buone, considerate le circostanze. I conti sono in ordine, e l’ateneo regge sia pure con qualche fatica il peso delle sue molte decine di migliaia di studenti. Subisce in misura comparativamente minore di altri atenei del Sud la fuga degli studenti verso le università del Nord. I punti di sofferenza sono determinati dal contesto circostante, e non da colpe o mancanze specificamente imputabili all’ateneo. Secondo un’opinione, sono poi decisive le vetrine di eccellenza che l’ateneo ha saputo negli ultimi anni allestire. Manfredi però deve sapere che su di lui si appunteranno da subito molte aspettative. Entra in carica avendo dal primo giorno piena consapevolezza e conoscenza dei problemi. Non gli sarà dato tempo per capire o acclimatarsi, perché si presumerà che non sia necessario. E questo sia su tematiche di ordine generale, come le valutazioni Anvur su cui cadono da sempre censure e dissensi, i meccanismi concorsuali, o la vexata quaestio del rapporto tra le università generaliste e i veri o presunti centri di eccellenza come i Technopole. Sia su terreni politicamente sensibilissimi, come il favor nella distribuzione delle risorse pubbliche tra Nord e Sud. Che gli atenei del Nord abbiano rispetto a quelli meridionali una maggiore disponibilità di risorse pro capite per studente, o un favor nelle politiche per il personale docente e ricercatore, è un fatto, non una opinione. E questo Manfredi non può non saperlo. Un compito non facile. Soprattutto perché il nuovo ministro entra in partita subito a valle della legge di bilancio, con un quadro di risorse già definito, e per di più in un governo che vivrà giorni di precarietà. Inoltre, le dimissioni di Fioramonti pesano, per le motivazioni che ha addotto. Non sembra da condividere la dietrologia che si è subito scatenata, perché, alla fine, Fioramonti ha fatto quel che aveva più volte annunciato. Quel che conta è che le risorse da lui richieste per la scuola e l’università non ci sono. Abbiamo colto solo di passaggio una generica promessa del ministro dell’economia per la prossima legge di bilancio. Come sappiamo, ogni promessa è debito. Purché, naturalmente, non debito pubblico.
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