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Riforme, il copione si ripete, dopo Renzi ci prova Giorgetti
di Massimo Villone dal Manifesto del 22/8/2018
Si è aperta una faglia tra gli alleati di governo sul terreno delle riforme? Sul palcoscenico del meeting di Rimini il sottosegretario Giorgetti si pronuncia per il presidenzialismo. Il ministro delle riforme Fraccaro, invece, parla di democrazia diretta ed in specie del potenziamento degli strumenti referendari. Il ministro pentastellato si è espresso, nell’audizione del 12 luglio presso le commissioni riunite affari costituzionali di camera e senato, chiarendo la sua impostazione. Potremmo non occuparcene, se Giorgetti non fosse personaggio di grande peso nella Lega, e se non temessimo il ripetersi di un copione già visto. I prossimi mesi saranno difficili per l’esecutivo giallo verde, che dovrà misurarsi con una difficile o impossibile attuazione delle promesse elettorali. Quale migliore diversivo che una bella stagione di grandi riforme istituzionali, per distrarre l’opinione pubblica dai problemi veri? Renzi prova che è un gioco pericoloso. Ma qualcuno può pensare di essere più bravo. Per Giorgetti la centralità del parlamento e la democrazia rappresentativa sono feticci da abbandonare. Ma sono stati già abbandonati da tempo, con il pensiero unico dell’elezione del leader con la sua maggioranza, e poi ancor più con leggi elettorali a premio di maggioranza e liste in tutto o in parte bloccate. L’inconcludenza che Giorgetti lamenta non viene da un parlamento che è già – come dice – marginale, ma dalla debolezza della politica. Lo vediamo in questi giorni, con la tragica vicenda di Genova. La storia delle privatizzazioni malfatte, delle concessioni costruite sull’interesse dei concessionari, delle secretazioni si svolge – dagli anni ’90 a oggi – nelle stanze di Palazzo Chigi. Non ricordo un solo dibattito parlamentare che abbia messo pienamente a fuoco scelte che pure determinavano il futuro dell’intero paese. Se ci fosse stato, forse oggi avremmo qualche concessione o qualche inutile autorità formalmente indipendente in meno, o un rapporto concessorio meno sbilanciato a favore del concessionario, o poteri pubblici di controllo e vigilanza meno evanescenti. I presidenzialisti nostrani soffrono di un peccato originale. Hanno abbandonato la matrice originaria – quella statunitense – che vede nel presidente e nel congresso due pilastri di eguale forza. Il congresso non può rimuovere il presidente, salvo il caso eccezionale dell’impeachment, e il presidente non può sciogliere il congresso. Un’architettura semplice che ha dimostrato nella storia la sua efficacia. Si discute negli Stati Uniti di riforma per evitare che vinca con il voto per stati nel collegio elettorale un presidente perdente nel suffragio popolare – come è accaduto con Trump – ma nessuno pensa di mettere mano al congresso, che è ritenuto un effettivo contropotere e un presidio necessario della democrazia. Ma il congresso SU per i nostri riformatori è troppo forte. Meglio un modello alla francese, magari con un’aggiustatina che garantisca in ogni caso l’elezione di un presidente con una ossequiente maggioranza numerica in parlamento. Che poi questo non aumenti affatto alla lunga l’effettività nel governare perché stimola una crescente allergia nei governati, come probabilmente si comincia a vedere con Macron, poco importa. Quel che conta è la teoria. Dunque, meglio Fraccaro. Ma vediamo un rischio: che gli alleati appianino le differenze semplicemente giustapponendo le diverse opzioni. Un sistema integralmente plebiscitario, dall’elezione diretta del presidente all’unico vero contropotere dato dal voto referendario. Un gollismo al cubo, in cui il parlamento come sede di rappresentanza politica, di confronto e di sintesi sarebbe schiacciato. Bisogna che Fraccaro sia reso consapevole che con Giorgetti non c’è alcun punto di incontro possibile. La stampa riferisce che Delrio a Rimini ha difeso la centralità del parlamento. È bene, se ha inteso riprendere una linea di fatto abbandonata da tempo dal suo partito. Se c’è un ravvedimento, che sia però operoso. Non esiste centralità senza una legge elettorale che garantisca piena rappresentatività delle assemblee, e senza parlamentari che rispondano agli elettori e non ai capibastone che li hanno messi in lista. In fondo, è proprio quel che ci dice l’art. 49 della Costituzione. Ancora una volta, gli antichi mostrano di aver avuto vista più lunga dei moderni.
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