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L’argine della Rai lo ha già abbattuto il governo Renzi
di Massimo Villone dal Manifesto del 31/7/2018
Cambiano gli attori, non il copione e sulla Rai si consuma l’antico rito spartitorio, rigorosamente ex lege. La riforma Renzi è infatti dolosamente pensata per garantire alla maggioranza e al governo il controllo del servizio pubblico. Con la cogenza della regola giuridica. Uno dei momenti alti del renzismo al potere. La legge assicura che dei sette componenti del consiglio di amministrazione quattro siano con certezza espressione della maggioranza parlamentare e del governo. Il cda nomina poi un amministratore delegato con vasti poteri, vero nocchiero della barca Rai. E se qualcuno volesse mondarsi del peccato originale e tradire il vincolo di appartenenza? Ecco pronta la revoca, anch’essa nelle mani del governo in quanto disposta da un’assemblea in cui è dominus il ministro dell’economia. Il cda nomina anche il presidente, solo per il quale si prevede il velo pudico di una maggioranza di due terzi per il parere in commissione parlamentare di vigilanza come condizione di efficacia. Ma nel quadro generale è parva materia. Vorrebbe essere un – quasi inutile – obolo alle opposizioni. Ed è paradossale che offra a Berlusconi una possibile sponda per trattare su una quota del bottino, a favore di un pezzo della coalizione di centrodestra che si camuffa da opposizione. E le sentenze della corte costituzionale che da decenni hanno posto la necessità di sottrarre il servizio pubblico al dominio dell’esecutivo e della maggioranza di governo? Carta straccia. Ad esempio nella sentenza 284 del 2002 la Corte afferma che l’esistenza stessa di un servizio pubblico si giustifica solo imponendo «alla concessionaria l’obbligo di assicurare una informazione completa, di adeguato livello professionale e rigorosamente imparziale nel riflettere il dibattito fra i diversi orientamenti politici che si confrontano nel Paese, nonché di curare la specifica funzione di promozione culturale ad essa affidata e l’apertura dei programmi alle più significative realtà culturali». Che si vuole di più? Ma, rispetto al fine indicato, la legge 220 è strumento inidoneo. Forse si poteva per la manifesta incostituzionalità anche ipotizzare un rinvio alle camere da parte del capo dello stato. Ma non accadde. Nel febbraio 2012 il comitato dei ministri del consiglio d’Europa in una raccomandazione agli stati membri afferma testualmente che «the first priority for public service media must be to ensure that their culture, policies, processes and programming reflect and ensure editorial and operational independence» (la sottolineatura è mia). Per l’Italia, tamquam non esset. Secondo Reporters without borders l’ascesa dei populismi in Europa può far temere una pressione crescente sui media. Di certo, la vicenda Rai non tranquillizza, in specie considerando che già ora nel World Index l’Italia è lontana dall’alta classifica. Come ben sanno gli studiosi, chi ha il potere gode di un intrinseco vantaggio comunicativo, perché l’azione di governo fa di per sé notizia. Ancor più se si aggiunge lo straripamento sui social di qualche ministro, come Salvini, mentre le forze che occupano palazzo Chigi hanno già dato segnali di insofferenza verso i media non allineati. L’ultima cosa di cui il paese ha bisogno è un servizio pubblico appiattito sulla tavola di valori del governo in carica, per una parte sicuramente inaccettabile. Ne danno prova da ultimo incidenti la cui matrice razzista sembra indubbia. Siamo a rischio. Il paese scivola a destra e regredisce verso l’inciviltà. Un’opinione pubblica consapevole grazie a una corretta informazione è oggi più che mai essenziale. È solo un apparente paradosso che in democrazia l’ultimo e insuperabile argine al populismo sia il popolo sovrano. Per questo, vorremmo una sinistra in grado di contribuire decisivamente a combattere la tendenza in atto. Una sinistra che parli, e non balbetti. Non vogliamo come unica trincea il «Vade retro Salvini» di Famiglia Cristiana. Nella sua ultima omelia domenicale, Eugenio Scalfari incita la sinistra ad uscire dalla tenda contrapponendo a M5S e centrodestra una terza squadra, di cui fa i nomi: da Veltroni a Calenda, passando per Renzi e Franceschini. L’idea della terza squadra è ottima. Peccato che in quella proposta la sinistra non ci sia. Nemmeno per finta.
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