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Referendum, Costituzione e lotta di classe
di Franco Turigliatto
Siamo entrati nella fase finale del lungo scontro sul referendum. I media sono mobilitati a fondo insieme a Renzi e alla classe dominante per affermare la controriforma istituzionale segnata da una democrazia sempre più formale, svuotata di contenuti reali e dominata dal potere degli esecutivi, fedeli esecutori delle scelte liberiste di questa fase di crisi del capitalismo. Dobbiamo aspettarci nuove falsificazioni politiche e colpi bassi ispirati dalla campagna elettorale americana. Tenere insieme battaglia democratica e sociale Dopo aver colpito a morte la previdenza pubblica, distrutto i diritti del lavoro, stravolto la scuola di tutti, massacrato la sanità e il welfare sociale, oggi il padronato vuole chiudere il cerchio anche sul piano delle istituzioni perché l’austerità generalizzata può andare avanti solo con la restrizione dei diritti e della democrazia. Per questo fin dall’inizio abbiamo sostenuto che era necessario unire la sacrosanta battaglia per la difesa dei diritti democratici sanciti dalla Costituzione, contrastando il tentativo di stravolgerla definitivamente, con quella sociale per la difesa degli interessi delle classi lavoratrici. Per opporsi adeguatamente alla forza della propaganda governativa sarebbe stato necessario sviluppare, insieme alla lotta per la democrazia, una mobilitazione sociale che mettesse a nudo le reali scelte di Renzi e della Confindustria, sottraendo loro consensi sulla base dei problemi materiali delle classi subalterne. Alcuni tentativi positivi sono stati fatti e ancora saranno fatti, ma non potevano, dato i limiti delle forze che li hanno organizzati, conseguire una grande dimensione di massa. La CGIL si è distinta in uno sport di cui è diventata campione del mondo: pronunciarsi formalmente per il No, senza fare nulla per sostenerlo, cioè costruire una vera campagna tra i lavoratori: la sua è una passività negativa e politicamente ambigua. I contratti nazionali di lavoro, tra cui quello metalmeccanico, avrebbero dovuto costituire un’occasione per il rilancio della lotta delle lavoratrici e dei lavoratori per la difesa delle proprie condizioni di vita e di lavoro e invece sono stati e sono condotti dalle direzioni burocratiche all’insegna della restituzione al padronato delle conquiste del passato; è la strada della sconfitta e della demoralizzazione che porta acqua al mulino della banda renziana e delle forze della destra. Senza lasciarsi intimidire dalla difficile situazione lo schieramento del No deve utilizzare tutti gli strumenti ancora disponibili per rilanciare la mobilitazione democratica e sociale, fondamentale per sconfiggere e cacciare Renzi, trampolino di lancio per una nuova fase della lotta di classe. La costituzione del 1948 Questi mesi hanno anche messo in luce tra le forze della sinistra diversi approcci alla questione costituzionale sui quali crediamo valga la pena di spendere qualche parola. Ci sono state, per esempio, forze sindacali, come la CUB, che hanno ritenuto (molto colpevolmente ed erroneamente) di non inserire nella propria piattaforma per le mobilitazioni dell’autunno il rigetto della controriforma costituzionale, limitandosi alle questioni sociali. La storia insegna che quando il movimento operaio tralascia le battaglie democratiche rischia di pagare un prezzo alto. Ci sono forze che hanno lavorato a fondo per respingere la controriforma, ma che non hanno compreso la necessità di una mobilitazione sociale per il NO; questi ed altri hanno assunto una visione mitica della carta costituzionale, un approccio letterario carico di retorica e nostalgico, non sempre utile per capire che cosa è in gioco e che cosa stiamo realmente difendendo. Per questo vale la pena di ritornare sulla Costituzione italiana di ieri ed di oggi. La Costituzione del ’48 non era la costituzione dei consigli di fabbrica, dell’autogestione e della democrazia diretta, espressione di una vittoria socialmente rivoluzionaria della classe lavoratrice. Era una costituzione fortemente democratica, ma pur sempre borghese, che garantiva la proprietà privata dei mezzi di produzione e il sistema capitalista in quanto tale; la classe borghese, che era stata artefice e complice del fascismo, rimaneva al suo posto, dominante. In una fase ascendente dell’economia mondiale, il capitalismo italiano conobbe così uno sviluppo senza precedenti prodotto dal boom economico e da un’ampia industrializzazione del paese. Questa Costituzione però, ed è questione molto importante, sulla base della tragica esperienza del fascismo e della guerra, ma anche e soprattutto grazie alla lotta della Resistenza e della classe operaia e dei suoi partiti, fu costruita sulla base di significativi strumenti democratici e di garanzia. Era caratterizzata da una grande divisione dei poteri dello stato e dal loro equilibrio, da meccanismi elettivi proporzionali che garantivano un’ampia rappresentanza politica delle classi subalterne, dal bicameralismo perfetto, per impedire le forzature legislative e i colpi di mano maggioritari, prevedendo un’approfondita discussione delle leggi e ricercando condivisione tra i vari settori della classe borghese e compromessi parziali con le rappresentanze della classe lavoratrice. Inoltre le forze della sinistra, che avevano rinunciato a trasformare la Resistenza in rivoluzione sociale, come invece era avvenuto in Iugoslavia, riuscirono a far inserire nella Costituzione non solo le norme di tutela della libertà e dei diritti, ma anche alcuni principi, se pur generici, di eguaglianza e di giustizia sociale. Questi principi erano iscritti però solo sulla carta, tanto è vero che Piero Calamandrei affermò che: “per compensare le forze di sinistra della rivoluzione mancata, le forze di destra non si opposero ad accogliere nella Costituzione una rivoluzione promessa. Solo l’avvenire potrà dire quali delle due parti, in questa schermaglia, abbia visto più chiaro”. Ed infatti la “Repubblica fondata sul lavoro” non impedì un comportamento molto aggressivo delle forze borghesi, il grande sfruttamento della classe lavoratrice negli anni ’50 e ’60, i licenziamenti di massa e le rappresaglie politiche sui luoghi di lavoro, a partire dalla Fiat, la violenza poliziesca contro le manifestazioni e gli scioperi che nel giro di venti anni fece più di 150 morti, per non parlare delle vittime del lavoro che, come è noto, superano di molto il migliaio ogni anno. Passarono 6 anni prima che fosse istituita (nel 1954) la Corte Costituzionale che pure costituiva un elemento chiave dell’intero impianto istituzionale e solo una grande mobilitazione e il voto dei cittadini impedirono nel 1953 che la legge elettorale “truffa”, predisposta dalla DC, diventasse operativa. Così la concretizzazione dei principi democratico-sociali della Costituzione rimasero del tutto inattesi per lunghi anni. La svolta del 68-69 La situazione si sbloccò solo con le dure e prolungate mobilitazioni studentesche, operaie e sociali gli anni ’60 e ’70; queste determinarono una profonda modifica dei rapporti di forza tra le classi a vantaggio del movimento dei lavoratori, che riuscì a imporre la parziale concretizzazione di alcuni principi sociali, solo formalmente enunciati dalla Costituzione, e la loro trasformazione in leggi (le riforme) nella società capitalistica italiana. E’ importante sottolineare che l’iscrizione nella Costituzione di questi principi fu tuttavia un elemento di grande utilità, un punto di appoggio e di riferimento per condurre le concrete battaglie del movimento operaio e democratico. Per questo è importante che un diritto o una conquista strappata nella lotta con un nuovo rapporto di forza si trasferisca anche sul piano della legge (per esempio lo Statuto dei lavoratori) e possa essere rivendicato da tutti e difeso nel tempo. Tra il ’68 e il ’78, cioè nell’arco di un decennio furono strappate con lotte anche molto dure tutte le principali riforme della società italiana. La realizzazione di una delle strutture portanti della Costituzione del ’48, le regioni (art. 114 e 115 nel testo originale) avvenne soltanto nel 1970. La grande riforma delle pensioni per garantire la vecchiaia alle lavoratrici e lavoratori è del 1968/69 (art. 38); così anche l’abolizione delle gabbie salariali e la conquista di efficaci contratti nazionali di lavoro (art. 36). Un forte sistema di scala mobile a protezione dei salari dall’inflazione (art. 36) è del 1975. Lo statuto dei lavoratori (pietra miliare per dare un qualche significato agli art. 1, 4 e 39) è del 1970. La legge sul divorzio e la legge attuativa del referendum (art. 75) sono sempre del 1970; la riforma fiscale (art. 53) e quella sanitaria (art. 32) sono del 1978; il voto ai diciottenni è concesso nel 1975 e nello stesso anno viene varata la riforma della famiglia che, finalmente, equipara i diritti tra uomo e donna (art. 29); la legge 194 sull’interruzione di gravidanza, e l’abolizione dei manicomi sono del 1978. Per quanto riguarda la scuola (art. 34) un primo passo era stato fatto agli inizi degli anni ’60 con la realizzazione della scuola media unificata, ma è solo con le grandi lotte del ‘68 che la scuola diventa veramente di massa, potenzialmente accessibile a tutte e tutti. Inoltre è solo dall’insieme di tutte queste riforme che l’articolo 3, tante volte richiamato dal PCI e dalle sinistre acquista qualche concretezza (“Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”). L’articolo 4 (“La repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto”) non venne mai concretizzato per il semplice fatto che non è compatibile con il sistema capitalistico. Costituzione formale e costituzione materiale Passarono pochi anni e appena l’onda della grande ascesa operaia cominciò ad attenuarsi, la borghesia e i suoi governi cominciarono a rimettere in discussione gran parte di quelle conquiste sociali. La scala mobile fu manomessa già agli inizi degli anni ’80 ed abolita definitivamente nel 1992 con un accordo tra governo, sindacati e Confindustria. La politica della concertazione e la sempre più marcata subordinazione delle burocrazie sindacali alle imprese svalorizzò sempre più i contratti di lavoro. La riforma fiscale perse via via il suo carattere realmente progressivo; l’imposizione sul capitale venne sempre più ridotta; il diritto ad una pensione decente dopo una vita di lavoro si andò via via scolorendo attraverso una serie di modifiche alla legge originale, fino alla ingiustizia della Fornero. La modifica al titolo quinto della Costituzione nel 2001 su iniziativa del governo di centro sinistra (sotto la spinta del cosiddetto federalismo fiscale), determinò un’alterazione profonda della Costituzione. Un colpo ancora più duro venne inflitto nel 2012 con l’introduzione dell’articolo 81, la norma capestro sul pareggio di bilancio che impedisce qualsiasi ampia operatività sociale dello stato. Negli ultimi anni i diritti del lavoro sono stati via via cancellati dalle controriforme di Berlusconi, Monti ed infine dal Jobs Act di Renzi. I tagli alla scuola, alla sanità, agli Enti locali, alla sicurezza sociale, hanno modificato profondamente in senso negativo la possibilità di accedere a diritti sociali fondamentali per tutte e tutti. In realtà da tempo, accanto a una costituzione formale, sempre più svuotata di contenuti reali, si è affiancata una costituzione reale, quella prodottasi con la sconfitta dei lavoratori e definita dai nuovi rapporti di forza tra le classi a vantaggio del padronato. L’azione di Renzi e dei governi precedenti è stata quella di trasformare in nuove leggi (le controriforme) gli obiettivi e gli interessi della classe dominante, grazie a questi nuovi rapporti di forza, ma anche grazie alla complicità e subordinazione delle direzioni sindacali. L’operazione del governo per conto del padronato è quella di chiudere la partita anche sul piano costituzionale, superando la contraddizione tra costituzione materiale e formale, adeguando del tutto la seconda agli interessi della borghesia in questa fase storica di crisi del capitalismo. Quando la JPMorgan nel 2013 e le altre società finanziarie hanno sostenuto la necessità di superare le costituzioni democratiche europee del secondo dopoguerra, affermavano la volontà della borghesia di disfarsi di sistemi istituzionali e norme giuridiche espressione di un rapporto di forza tra le classi che non esiste più; norme però che, finché rimangono scritte sulla carta, sono comunque di parziale impedimento alla loro azione, perché possono essere appellate dalle classi lavoratrici. La battaglia per il NO, è dunque decisiva per impedire che questo cerchio si chiuda, che sul piano istituzionale il padronato disponga di tutte le leve per condurre la guerra contro la classe lavoratrice, per tenere aperta, anzi riaprire, la battaglia per la difesa delle condizioni di vita della classe lavoratrice e cancellare le leggi della controrivoluzione liberista. In conclusione Ogni battaglia politica sarebbe persa se qualcosa non si modificherà nei prossimi anni sul piano sociale. Se i soggetti della democrazia sostanziale sociale e politica, che hanno con le loro lotte imposto anche le forme più avanzate della democrazia borghese, non torneranno protagonisti del loro destino, cioè se le classi lavoratrici non rialzeranno la testa, respingendo con la lotta la controrivoluzione sociale e politica della borghesia e dei suoi partiti, rimettendo al centro dello scontro i loro bisogni e le loro rivendicazioni, il risultato appare scontato. Solo in un quadro di mobilitazione sociale, di democrazia partecipata ed attiva dal basso si troverà anche la forza e la credibilità di battere le involuzione reazionarie e antidemocratiche di Renzi, dell’Unione Europea e delle forze economiche e politiche capitalistiche.
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