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RACCOLTA FIRME
Dare forza al No costituente
di Raffaele Cimmino
Esiste, nella polarizzazione delle posizioni nella campagna referendaria, una tesi che sostiene che se vincesse il Sì non sarebbe la fine del mondo: la democrazia, la solida democrazia italiana, continuerebbe a esistere più efficace ed efficiente di prima. O anche, sostiene chi vota un Sì “necessitato”, rimarrebbe certo la necessità di rodare e rendere funzionante in qualche modo il pasticcio istituzionale prodotto dall’ avventuroso cambiamento di un terzo della Carta; ma tutto il sistema rappresentativo trarrebbe giovamento dallo scatto in avanti così prodotto. In ogni caso, si aggiunge, non finisce il mondo. Il punto è che, certo, se vince il Sì non finisce il mondo. Solo, finisce un mondo. Finisce il mondo della Costituzione del ’48. Se ne cancella l’anomalia, come se fosse il fantasma di un’epoca di cui va rimossa ogni traccia: i “trenta gloriosi” anni seguiti alla seconda guerra mondiale e alla resistenza antifascista. Perché, nonostante i costituzionalisti arruolati assicurino il contrario, non cambierebbe solo la forma di governo, passando dal parlamentarismo al premeriato forte e inverando la democrazia del capo (essendo appunto il “capo” l’arcano politico che tiene insieme il combinato disposto deforma costituzionale-Italicum); ma si sancirebbe lo svuotamento anche della prima parte della Carta. Le Costituzioni non sono mai una pura produzione positivista astratta dal contesto storico. Sono il precipitato puntuale degli equilibri politico-sociali che le esprimono, vale a dire da rapporti di forza prodotti dalla lotta politica. La Carta del ’48 è appunto la risultante del rivolgimento degli equilibri politici e sociali scaturiti dalla resistenza antifascista. Dunque, è stata perfettamente conseguente Jp Morgan, quando ha avvertito della necessità di cambiare le Costituzioni europee figlie dell’esperienza dell’antifascismo perché corrive al socialismo. Il punto, intollerabile per le oligarchie finanzcapitaliste, è che quelle costituzioni, la nostra in particolar modo, hanno integrato il principio della libertà delle costituzioni ottocentesche liberali - la libertà positiva dell’individuo proprietario -, con il principio dell’uguaglianza, da leggersi: libertà capacitante, fondata dalla liberazione dal bisogno attraverso il diritto al lavoro, alla salute, a una vita dignitosa. Dalla grande conquista delle costituzioni postbelliche, libertà più uguaglianza, bisogna dunque procedere a elidere l’uguaglianza. In altri termini ancora, deve essere impedito per sempre alle forze organizzate del lavoro di poter incidere sulle scelte politiche fondamentali dello Stato-nazione visto ancora come spazio fondamentale degli antagonismi politici e sociali. Per raggiungere questo obiettivo l’ostacolo da abbattere è la natura pluralista della democrazia parlamentare. Quello che va falsato è il gioco democratico che si esprime attraverso la partecipazione dei cittadini alla vita politica. Si chiude in basso la permeabilità della Carta all’antagonismo delle forze sociali (o si può dire classi?) e ai conflitti, che erano correttamente letti dai costituenti come una domanda a cui rispondere non come una malattia da cui immunizzarsi. Attenzione però; si chiude la porta non già più al sovraccarico di domande in cui la Trilateral già nel 1973 aveva letto un pericolo mortale per le leadership occidentali (decenni di neoliberismo applicato hanno operato già in tal senso), ma alla rivolta contro le élite originata dalla crisi permanente e dal ridisciplinamento sociale che sta facendo scivolare verso il basso interi settori sociali un tempo ceto medio in ascesa. Da lì origina la rivolta contro la politica. Anche per questo il movimento basso vs. alto della società va indagato e non rimosso con fastidio pedagogico. Quando il grande giurista e costituente Costantino Mortati parlava di “costituzione materiale” intendeva esattamente il rapporto tra la Carta e gli equilibri politico-sociali che nella Carta dovevano trovare accoglienza e alla luce dei quali essa andava letta e applicata. Oggi la controriforma Renzi-Boschi innesta la verticalizzazione a-democratica della governance nel meccanismo della democrazia rappresentativa stravolgendola dall’interno. Si potrebbe dire che, come hanno insegnato i teorici neoliberisti, il primo passo è stato cambiare la società per poi cambiare le teste delle persone (i popoli europei devono cambiare la loro mentalità, ammonì per tempo Frau Merkel)-, che non devono credere di avere diritti nel mercato globale. Adesso si deve procede a trascrivere questi cambiamenti materiali e politici nella Costituzioni. Per cui se il debito è una colpa, si sancisce per legge, meglio se di rango costituzionale, l’obbligo del pareggio in bilancio. Detto niente affatto paradossalmente, con la legge Renzi-Boschi si rende funzionale la Costituzione alla società disegnata dalla precarietà e dall’austerity di cui il Jobsact è il suggello. Ecco dunque il grande salto all’indietro che ci troveremo ad affrontare se passasse il Sì: è il mondo che cambia, eccome se cambia: “ogni cosa è mutata, mutata interamente” . Certo, rimarrebbero formalmente in vigore i principi della prima parte. Ma a questo punto inoffensivi. In ogni manuale di diritto costituzionale si insegna che la prima e la seconda parte, i principi fondamentali e le istituzioni che devono incarnarli, sono intimamente legati, si sorreggono gli uni con gli altri. I diritti peraltro non sono dati per sempre. Perché la loro ontologia è politica (G.Preterossi). Dunque, essi possono essere sempre se non revocati messi in mora e neutralizzati, anche quando formalmente restano in vigore. La cancellazione della democrazia parlamentare, la sua esecutivizzazione, per cui l’essenziale è il decidere in sé, il decidere velocemente in uno spazio liscio senza ostacoli su cui muoversi è il compimento di una politica a misura delle dinamiche del mercato globale. Ergo, la democrazia pluralista deve cedere il passo alla figura del “capo” a cui si dà, il giorno delle elezioni, un mandato da cui non si potrà più tornare indietro, salvo scegliere un altro capo al suo posto. Vengono svuotati a un tempo il principio del pluralismo e quello della rappresentanza intesa come riflesso delle forze sociali in cui si articola il popolo titolare della sovranità secondo l’art.1. Si stabilizza così la “dittatura commissaria” della finanza sui popoli europei precisamente individuata da Etienne Balibar, il cui primo stadio è stata costituzionalizzazione del pareggio in bilancio. Beninteso non è che esista un complotto, una regia, i personaggi e gli interpreti di un copione scritto: sono l’ultrapoliticista lotta per il potere di Renzi (e la sua irrilevanza sulla scena europea) e il quadro di contesto che, combinati insieme, spingono in questa direzione. Se è così, non basta agire la parola d’ordine della difesa della Costituzione. Bisogna difenderne il nucleo vitale della Carta del ’48 contro la deforma di Renzi, ma con risposta che deve essere adeguata, perché il progetto verso cui Renzi ha dato un colpo di acceleratore viene da lontano. Non serve a dissimularlo la sua superficiale effervescenza, impostata ad uso dei media, sul proscenio europeo, che non sposta di un millimetro la politica del “pilota automatico” teorizzata da Draghi. Non si può slegare la funzione politica di argine della Carta dalle forze sociali che concretamente agiscono sul campo: dietro Renzi si muovono forze che hanno usato la crisi per rafforzarsi. La crisi è diventata stasis, una sorta di guerra civile interna combattuta solo apparentemente senza l’uso della violenza. Per questo nella campagna referendaria vanno gettate le basi di una mobilitazione politica e sociale che ripoliticizzi i conflitti aperti dall’uso politico della crisi. Non bisogna avere esitazione nel collegare la battaglia per la difesa della Costituzione con un blocco sociale, almeno embrionale, contro un progetto politico che coincide interamente con gli obiettivi delle oligarchie nazionali ed europee e non presuppone neanche lontanamente – contro ogni abbaglio di vecchi filosofi – una rivincita dell’autonomia del politico. Non significa questo rassegnarsi a un arretramento sovranista: l’Europa rimane lo spazio dentro cui agire un largo processo di democratizzazione. Quello che non è più rimandabile è la messa a tema della ripoliticizzazione degli spazi nazionali che la perdita di autonomia della politica e l’indebolimento dei corpi intermedi hanno neutralizzato riducendo la questione del governo a questione di gestione tecnica dell’economia e la politica a una delega a pochi ottimati. Alla politica, meglio ancora, a una sinistra che voglia tornare a avere un ruolo e una funzione di trasformazione spetta mettere in campo un progetto di alternativa a un modello sociale che è stato costruito mattone dopo mattone negli ultimi trent’anni. O la battaglia per la difesa della Costituzione fa tutt’uno con la lotta contro il modello della precarietà espansiva, contro la politica economica ridotta alla massima deflazione salariale e allo svuotamento delle risorse per il welfare e la sanità, o si riduce a battaglia di due fronti dell’antipolitica, quello dall’alto e quello dal basso. Non serve una difesa del passato, dunque, ma un No costituente per allargare gli spazi democratici e tenere insieme i pezzi di società tenuti in scacco dal progetto di Renzi, che da a chi più ha molto e toglie a chi ha poco. Il presidente del consiglio ha virato largamente verso l’elettorato di destra per muoverlo verso il Sì e blandisce gli umori dell’elettore del M5S con la lotta alla casta: è la prefigurazione del partito liberista e centrista che vuole costruire e insieme il tentativo di scacciare dalla finestra lo sgradito tripolarismo. Per contrastare il suo schema nell’ultimo mese di campagna elettorale vanno resi chiari e leggibili il retroterra sociale e l’obiettivo politico della legge Renzi-Boschi. Va svelato il tentativo di svuotare il contenuto sociale della Costituzione e proposta una concreta alternativa fondata sull’attuazione della Carta (diritto al lavoro, diritto a una vita dignitosa, diritto alla sanità gratuita e di qualità). Un No che sia già un programma politico alternativo al renzismo. Va sì riformata la Costituzione, ma aprendo gli spazi alle forme di cooperazione sociale, a istituti giuridici che infrangono la polarità pubblico-privato (beni comuni), garantito il diritto a una lavoro degno contro la precarietà a vita soprattutto introducendo il reddito minimo. Ridare attuazione alla Costituzione significa soprattutto emendarla da quel peso insostenibile che è l’obbligo di pareggio di bilancio, la trappola mortale che svuota la democrazia rendendo impossibile una politica economica alternativa all’austerity. A una sinistra che voglia essere tale tocca stare dentro i rivolgimenti del tempo assumendosi il compito di politicizzare il conflitto alto-basso e finalizzarlo a una prospettiva di uscita progressiva dalla deriva in corso. La vittoria del No sarà un buon viatico.
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