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Quando il debito diventa vettore del vento liberista
di Tommaso Nencioni dal manifesto 3-5-2016
Neo-liberismo. All’inizio, Reagan voleva portare gli Usa fuori dal Fmi, all’epoca keynesiano. Poi la giravolta. Decisiva. Tagli, privatizzazioni e libertà dei capitali hanno depredato i paesi poveri. Le mobilitazioni popolari possono e devono rovesciare il tavolo Il governo greco sembra finalmente riuscito, pur pagando il prezzo del varo dell’ennesimo pacchetto di «riforme strutturali», non solo a sbloccare una nuova, vitale, tranche di aiuti, ma anche a ottenere la tanto agognata riduzione del debito da parte delle istituzioni finanziarie internazionali. Se al momento non è possibile fare previsioni sulle possibilità del governo guidato da Alexis Tsipras di sfruttare questa congiuntura per traghettare il paese fuori dal tunnel della recessione, e soprattutto sulla capacità di tenuta della società greca esposta a una ulteriore durissima prova, è invece facile, anche alla luce della lezione della storia, decifrare il disegno portato avanti dalla Trojka. Fin dai primi anni Ottanta, il macigno del debito gravante sugli stati periferici ha costituito infatti il più importante vettore della controrivoluzione neoliberista, le cui leve sono state maneggiate con sapienza da istituzioni come la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale. Fmi e Bm nacquero, nell’ambito degli accordi di Bretton Woods del 1944, come organismi al servizio della stabilità della finanza e del commercio internazionale in età di embedded liberalism, di controllo nazionale sui flussi finanziari e di crescita coordinata di salari e profitti. L’egemonia keynesiana nelle due organizzazioni fu salda fin dalle origini, e la loro funzione stabilizzatrice nel corso dei «trenta gloriosi» è universalmente riconosciuta. Ma a seguito della crisi del ’73 e della svolta neoliberale il loro ruolo comincia a essere percepito, specialmente negli Stati Uniti, come superfluo, se non fastidioso. Tant’è che tra i punti del programma elettorale che portò Ronald Reagan alla Casa Bianca figurava anche l’uscita degli Usa dal Fmi. Ma improvvisamente, una volta insediatosi, lo stesso Reagan operò un completo voltafaccia. Cosa era successo? Con l’embargo petrolifero imposto dai paesi arabi nel ’73 e i prezzi del greggio alle stelle, le finanze degli stati del Golfo persico erano state invase da una massa enorme di liquidità. I «petrodollari» così accumulati iniziarono ad affluire – non è ancor chiaro se spontaneamente o a seguito di pressioni non solo politiche – nelle casse delle grandi banche statunitensi. Tutto questo avveniva in un periodo di raffreddamento degli investimenti industriali in tutto l’Occidente, dovuto alle grandi conquiste ottenute dalle lotte del movimento operaio ed agli alti prezzi dell’energia. Allo stesso tempo, tuttavia, i governi dei paesi da poco usciti dai processi di decolonizzazione avevano un disperato bisogno di liquidità, per rimettere in moto la produzione dopo anni di guerre devastatrici e di rapina delle risorse: le élites post-coloniali dovevano mantenere fede agli impegni presi con i propri popoli, che avevano sostenuto lo sforzo immenso delle lotte di liberazione. I grandi gruppi bancari trovarono quindi nei nuovi Stati una vasta platea di «clienti» per la massa monetaria che avevano accumulato. Anche perché, come sostenne Walter Wriston, allora alla testa di Citibank, «i governi non possono trasferirsi o scomparire». In questo panorama va inserita la giravolta da parte della presidenza Reagan. Lo shock monetarista imposto dal governatore della Fed Paul Volcker, con un improvviso e massiccio aumento dei tassi di interesse, portò all’insolvibilità dei paesi del Terzo Mondo che avevano contratto i prestiti in dollari con le grandi banche. Fu a quel punto che si stipulò l’alleanza di ferro tra il tesoro Usa, la Bm e il Fmi: furono promossi prestiti da parte delle istituzioni di Bretton Woods, a patto che i paesi indebitati varassero pacchetti di «riforme» in senso neo-liberista. Lo schema si è ripetuto da allora per il Messico e il Cile (1982), per l’Argentina alla fine degli anni Ottanta, per la Russia e le «tigri asiatiche» e ancora il Messico a metà anni ’90, e di nuovo per l’Argentina sulla fine di quel decennio. Finalmente, stavolta con l’Ue al posto del Tesoro Usa a completare la Trojka con Fmi e Bm, per i paesi dell’Europa mediterranea a partire dalla crisi del 2008. Le eccedenze di capitale prodotte dalle varie crisi susseguitesi nell’ultimo trentennio hanno così trovato impieghi remunerativi a mano a mano che le ricette alla base delle «riforme» venivano varate, ricette al centro delle quali stanno immancabilmente programmi di privatizzazione degli asset strategici nazionali e delle assicurazioni sociali (su tutti, sanità e pensioni). Come ha osservato David Harvey, «la restaurazione del potere dell’élite economica, negli Stati uniti e in altri paesi a capitalismo avanzato si è basata soprattutto sui surplus prelevati dal resto ed mondo attraverso i flussi internazionali e le pratiche di aggiustamento strutturale». È sotto gli occhi di tutti, ormai, che questa dinamica non funziona, se non per salvaguardare gli interessi di un’oligarchia la cui egemonia pare finalmente messa in questione e la costruzione di rigide gerarchie tra i centri metropolitani dell’accumulazione e le periferie spossessate. L’inversione di questo circolo vizioso passa sì per un cambiamento nelle pratiche macro-economiche dei governi, ma soprattutto per la ripresa della mobilitazione dei popoli. I movimenti popolari sorti nei Paesi più colpiti dalla crisi hanno già dato una scossa, promuovendo oltretutto forti cambiamenti elettorali. Le piazze francesi ci fanno capire, assieme alle scosse prodotte nei rispettivi panorami politici dall’irruzione di Sanders e Corbyn sull’onda della protesta in Gb e Usa, che anche negli stati più ricchi la misura comincia a essere colma. Il tavolo del neo-liberismo può e deve essere rovesciato.
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