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Alcune semplici riflessioni su Costituzioni, conflitti, democrazie ed assetti economico sociali
di Giovanni Lamagna
Credo sia evidente a molti (se non a tutti) che c’è un nesso strettissimo tra assetti economico/sociali, equilibri politici più o meno democratici (o, all’incontrario, più o meno autoritari) e il livello di formalizzazione istituzionale che questi equilibri trovano nella Costituzione vigente in un dato momento in un dato paese. Questa premessa, alquanto banale, è, però, necessaria (o quanto meno utile) per provare a rispondere alle seguenti domande: che cosa è cambiato in Italia negli ultimi 40 anni (ma la stessa domanda ce la potremmo fare anche per gli altri paesi europei) rispetto all’immediato dopoguerra? Quali cambiamenti hanno provocato il processo politico/istituzionale/mediatico che ha messo al centro, all’ordine del giorno la revisione della Carta Costituzionale varata nel 1948? Per rispondere a queste domande occorre innanzitutto chiedersi: qual’era l’Italia alla metà degli anni ’40? E i dati essenziali che emergono sono per me questi: l’Italia a metà degli anni ’40 è un paese che esce da una catastrofe inaudita, che ha bisogno di ricostruirsi sul piano morale, prima ancora che materiale; esce da 20 anni di dittatura che avevano portato al disastro della II guerra mondiale e quindi vi è egemone un bisogno di democrazia e di libertà; pur nelle feroci contrapposizioni ideologiche dell’epoca (la principale quella tra mondo cattolico e mondo socialcomunista) il paese vive una straordinaria fase di coesione, dovuta ai due fattori di cui prima. La Costituzione italiana del ’48 fu il prodotto di questa temperie economica, sociale, morale, culturale e politica. Che si è mantenuta viva ancora per un buon trentennio, per tutta la fase che è passata alla storia con l’espressione di “miracolo italiano”, cioè dell’avvio della industrializzazione del paese, della sua fuoriuscita da un economia prevalentemente agraria e l’entrata nella fase della modernità matura. Che cosa cambia nel nostro paese e nel panorama politico mondiale, dopo una trentina di anni dal varo della nostra Costituzione, a partire (a mio avviso) già dalla metà degli anni 70 in poi? Il primo cambiamento importante è che la fase espansiva della nostra economia subisce una radicale e profonda inversione di tendenza. La fase di crescita progressiva e ininterrotta, che aveva caratterizzato i primi 30 anni del dopoguerra, entra in crisi: da questo momento in poi, a fasi di crescita si alternano fasi di rallentamento, poi di stagnazione, poi di recessione. Alle crisi cicliche si cerca da parte dei governi (tra l’altro molto instabili) di porre rimedio fondamentalmente in due modi: attraverso la spesa pubblica e, quindi, alimentando di continuo il debito pubblico; attraverso svalutazioni periodiche della nostra moneta, che rendevano (almeno per un certo lasso di tempo) competitivi i nostri prodotti, che altrimenti avrebbero faticato a reggere la concorrenza internazionale. Il secondo cambiamento importante decisivo è che aumenta vertiginosamente il processo di integrazione soprattutto economica dell’Europa, per cui i processi decisionali si trasferiscono in quote sempre maggiori dal nostro governo nazionale ad un governo sovranazionale, quello dell’Europa. Ci sono poi tutta una serie di altri cambiamenti, che non riguardano solo l’Italia, ma comunque anche l’Italia. Il primo di essi è l’entrata in funzione, progressivamente sempre più estesa, dell’informatica nei processi produttivi, che comporta una verticale caduta della domanda di lavoro. Il secondo è la progressiva e sempre più rapida mondializzazione dei mercati, in parte collegata anche all’impiego delle tecnologie informatiche. Questo cambiamento ha reso possibili dislocamenti (prima impensabili) di attività produttive da un paese all’altro, in base alla logica della convenienza economica dell’impresa (soprattutto la logica del costo del lavoro). E quindi da un lato ha inciso sui livelli occupazionali, dall’altro ha reso più ricattabile il mondo del lavoro dei paesi a più alto costo di manodopera. Il terzo cambiamento è la progressiva crescita degli investimenti di natura puramente finanziaria: l’affermarsi del cosiddetto finanzialcapitalismo. Che è stato reso possibile dalla grande facilità degli spostamenti di moneta, legata sia alle innovazioni tecnologiche/informatiche, sia alla mondializzazione delle economie nazionali. Ed è stato fortemente incentivato dallo possibilità di ottenere con questo tipo di investimenti profitti enormi, a volte superiori a quelli in attività produttive, spesso più facili e più veloci. Il quarto cambiamento è stato di natura geopolitica: la caduta dei regimi comunisti nei paesi dell’Est dell’Europa, che ha determinato il venir meno di un contrappeso economico/ culturale/ideologico/politico/militare al predominio dei paesi occidentali ad economia avanzata. E, quindi, il dilagare del cosiddetto “pensiero unico neoliberista”. L’insieme di questi fattori ha fatto saltare quella situazione che, se non era di vera e propria coesione sociale tra classi e ceti diversi, era quantomeno di compromesso. Un compromesso che qualcuno, a posteriori, ha voluto definire “aureo”, che, forse, proprio aureo non era, ma era quantomeno onorevole, dignitoso, per le classi e i ceti meno abbienti e più subalterni. E che soprattutto era durato parecchio: circa trent’anni, dalla fine della II guerra mondiale fino all’incirca alla metà degli anni ’70. Aveva avuto fasi alterne, di alti e bassi, di battaglie e lotte anche aspre, a volte addirittura cruente, ma aveva visto un’indubbia e progressiva ascesa delle condizioni di vita delle classi e dei ceti più bassi nella scala sociale. La fine del “trentennio glorioso” (altra espressione utilizzata per definire quel periodo) ha comportato lo scatenamento di una vera e propria guerra di classe all’incontrario, condotta cioè dalle classi più agiate (soprattutto quelle imprenditoriali e della grande finanza) nei confronti delle classi e dei ceti più disagiati (non solo proletariato e sottoproletariato, ma anche ceto medio). Da questo momento in poi non si può più parlare di accettabili o quantomeno onorevoli livelli di coesione sociale in Italia. E, forse, neanche più negli altri paesi dell’Europa. Soprattutto in quelli a economia più debole. Comincia un progressivo, graduale e poi via via sempre più rapido arretramento delle condizioni di vita del mondo del lavoro. Che, tra l’altro, col tramonto della grande fabbrica o unità produttiva, diventa sempre più frammentato e debole, perciò incapace di opporre all’attacco dell’avversario di classe una difesa organizzata e all’altezza dello scontro. I primi diritti che cominciano ad arretrare son quelli contrattuali. Quindi i diritti sociali. Conquiste realizzate nei gloriosi anni ‘50 e ’60, che sembravano irreversibili, vengono un poco alla volta rimesse in discussione. Il lavoro diventa sempre più precario ed atomizzato. Il salario è fermo o addirittura in regresso. I diritti affermati e sanciti dalla Costituzione vengono in molti casi negati nei fatti. Viene così a determinarsi una discrasia, sempre più vistosa, tra Costituzione formale e Costituzione materiale, che dal piano economico/sociale fa presto a trasferirsi anche su quello politico, degli assetti istituzionali. Si pone così il problema (già a partire dagli inizi degli anni ’90) di un adeguamento della Costituzione del 1948 ai cambiamenti economico/sociali intervenuti. Un primo traguardo questo processo che si è avviato lo supera, nel 1993, con la trasformazione della legge elettorale da proporzionale a maggioritaria, che modifica profondamente (nei fatti, anche se non formalmente) gli equilibri tra i vari segmenti della rappresentanza. Con un sistema elettorale proporzionale, infatti, le minoranze pesano in rapporto alla loro forza numerica reale. In un sistema elettorale maggioritario il loro peso si ridimensiona drasticamente e in misura inversamente proporzionale a quello della maggioranza. Inoltre entra in gioco il fattore del cosiddetto “voto utile”: l’elettore è portato a votare il partito o la coalizione che ha maggiori possibilità di entrare in Parlamento (anche se non lo esprime pienamente) e a non votare il partito o la coalizione che ha scarse probabilità di farlo (anche se è quello più vicino al suo orientamento politico). Per non correre il rischio di disperdere il proprio voto, dandolo ad un partito che non riuscirà a conquistare seggi in Parlamento. La spinta dell’Europa verso un radicale cambiamento delle istituzioni nei singoli paesi (tra cui l’Italia) è fortissima. Alcune agenzie di rating pongono la questione in maniera esplicita, perfino cruda: le Costituzioni post belliche contengono troppi elementi di “socialismo”, vanno adeguate dunque al nuovo clima economico/sociale/culturale/politico. Fin quando il governo italiano era in mano alla destra conclamata di Berlusconi, queste spinte sono state contrastate anche dalla pseudo opposizione di centrosinistra. Con l’ecclissi politica dell’uomo di Arcore, il PD conquista il governo e getta la maschera: si manifesta come il più convinto sostenitore delle riforme istituzionali che ci vengono richieste dall’Europa e che, d’altronde, sono necessarie per portare avanti i programmi economico/sociali che la Troika europea ci impone. Con l’arrivo al potere di Renzi il cerchio tende a chiudersi. La contrapposizione tra Costituzione formale e costituzione reale/materiale, che pure aveva trovato un suo equilibrio durato all’incirca 30 anni (seppure un fragile, instabile, precario equilibrio), non regge più sotto i colpi della crisi economica sempre più imperversante. Occorre un’ulteriore e definitiva svolta, nel senso di un maggiore accentramento dei poteri nelle mani dell’Esecutivo, cioè del governo, e a scapito del Parlamento. La riforma Renzi/Boschi e, soprattutto, la nuova legge elettorale Italicum, entrambe recentemente varate dal Parlamento italiano, chiudono il cerchio di cui prima. Siamo in presenza di una vera e propria svolta in senso autoritario del quadro politico italiano, quasi un golpe bianco, che capovolge la sostanza se non propria la lettera della Costituzione del 1948. Ne sono il segnale chiaro, abbastanza netto ed esplicito, almeno due fattori: il ruolo quanto meno anomalo svolto dal Presidente emerito della Repubblica Giorgio Napolitano nel corso dei nove lunghi anni del suo mandato; il fatto che entrambe le riforme di cui sopra siano state varate da un Parlamento che nel gennaio del 2014 era stato dichiarato nei fatti politicamente illegittimo dalla sentenza Corte Costituzionale che aveva considerata incostituzionale la legge elettorale con cui quel Parlamento era stato eletto. Con le riforme costituzionali appena approvate e, soprattutto, con la nuova legge elettorale, cosiddetta Italicum, si intende bypassare problemi che sono di natura squisitamente economico/sociale con strumenti di natura politico/istituzionale. Si pretende di risolvere la frammentazione del quadro politico, che è lo specchio fedele della frammentazione sociale, con soluzioni di ingegneria costituzionale e politica. Si vuole semplificare, in maniera artificiale e, quindi, per forza di cose autoritaria, la complessità sociale reale. ………………….. Le ricostruzione delle vicende appena descritte, che caratterizzano sinteticamente un periodo storico abbastanza lungo, oramai vicino ai sette decenni, mi induce una serie di altre riflessioni che attengono più alla filosofia politica che alla ricostruzione storica. Le espongo in maniera schematica e per rapidi cenni. La storia è conflitto nella sua essenza. La ricostruzione di un periodo storico dunque è nient’altro che la ricostruzione dei conflitti che lo hanno animato e caratterizzato. Il conflitto avviene innanzitutto tra forze economico/sociali; ma è anche conflitto tra idee, ideologie, correnti culturali, sensibilità religiose … Le Costituzioni (nazionali o sovranazionali che siano) sono nient’altro che la formalizzazione (più o meno solida, più o meno fragile, più o meno stabile e prolungata, più o meno precaria e provvisoria…) dei rapporti di forza che si vengono a costituire in una determinata fase storica tra i diversi soggetti sociali in conflitto. A rapporti di forza diversi corrispondono Costituzioni di natura diversa. Io ne individuo fondamentalmente di tre tipi: – Costituzioni democratiche (abbastanza) funzionanti; – Costituzioni democratiche paralizzate (e quindi non funzionanti); – Costituzioni autoritarie (oligarchiche o monocratiche). Le Costituzioni democratiche funzionanti sono per me quelle che vivono in una fase storica di relativa (sempre relativa, mai assoluta) pace sociale. Una fase storica nella quale le forze sociali si vedono costrette a o preferiscono raggiungere un onorevole compromesso tra di loro. Un compromesso sempre precario e mai definitivo o assoluto. E però di una qualche significatività e consistenza. Le Costituzioni democratiche paralizzate sono quelle in cui il compromesso (di cui prima) salta, non funziona più. Una delle forze in campo tende a sopraffare l’altra (o le altre), ma non ci riesce ancora del tutto. Il vecchio non è ancora morto ed il nuovo non è ancora nato. Queste Costituzioni sono caratterizzate da un conflitto tutto interno: tra il loro dato formale (che rimane intatto quanto alla lettera) e il loro dato materiale (che mette in discussione quella lettera, anche se non riesce ancora a modificarla del tutto). Le Costituzioni autoritarie sono quelle in cui uno dei soggetti sociali in conflitto riesce a sopraffare definitivamente gli altri e ad imporre anche sul piano formale (e non solo materiale, come magari era già prima) una nuova Costituzione, che sia espressione non più di un compromesso tra diversi interessi economico/sociali, ma di un solo interesse: il suo. A voler leggere il periodo storico che va dal 1948 ad oggi in Italia alla luce di questa griglia di categorie filosofico/politiche dianzi esposta, a me sembra che la prima abbia occupato il primo trentennio della nostra storia repubblicana; che la seconda abbia occupato il secondo quarantennio di questa storia; che la terza stia per incominciare; anzi che sia già incominciata due anni fa, all’indomani della sentenza del gennaio 2014 della Corte Costituzionale, che dichiarava incostituzionale la legge elettorale (cosiddetta Porcellum), con il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, che, anziché adoperarsi per sciogliere il Parlamento ed andare a nuove elezioni (come sarebbe stato corretto e naturale sul piano istituzionale), sollecitò più volte ed in maniera addirittura formale e solenne lo stesso Parlamento (delegittimato politicamente, se non istituzionalmente, dalla sentenza dell’Alta Corte) non solo a continuare a legiferare fino al termine naturale della legislatura, ma a trasformarsi in vera e propria assemblea costituente. Vero e proprio golpe bianco e strisciante! Solo da pochi (e mai in maniera abbastanza forte) denunciato e contrastato. A ottobre, ora che la Costituzione del 1948 è stata modificata in maniera significativa anche formalmente, dopo esserlo stata sul piano materiale già da vari decenni, andremo a votare in un referendum cosiddetto “confermativo”, che ci chiederà se siamo d’accordo o meno con la nuova Costituzione, per la quale tanto si è adoperato (e in maniera ben poco protocollare) il governo Renzi/Boschi. Votando no, avremo la possibilità di cominciare a invertire la tendenza involutiva e autoritaria che ho provato a descrivere sopra. Obiettivo, senza ombra di dubbi, importante e da perseguire, per cui battersi. Ma io sono convinto che, anche se vincessero i no, si tratterebbe solo di un piccolo e primissimo passo. Molto, infatti, resterebbe ancora da fare per ricostituire non solo la lettera e la forma di una Costituzione autenticamente e profondamente democratica, ma soprattutto quel clima morale, culturale, sociale, che rese possibile la Costituzione del 1948. Perché, per ricostituire quel clima, si tratta di invertire in premessa gli attuali rapporti di forza economici e sociali, di gran lunga sfavorevoli oggi alle classi e ai ceti subalterni. E questo è obiettivo di gran lunga più difficile e di lunga durata che quello di vincere un referendum, sia pure un referendum così importante come quello confermativo del prossimo ottobre.
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