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Riconversione ecologica e reddito di cittadinanza alla base di un'Altra Economia
di Aldo Pappalepore
La crisi (sociale, ambientale, beni-comunistica) di tipo strutturale determinata dal sistema economico dominante discende dalla ideologia del profitto e del dominio sulla natura e quindi dalla mercificazione del lavoro, dalla crescita illimitata della produzione industriale e dei mercati di beni e servizi, dalla speculazione finanziaria e dall'inquinamento dell'ambiente in un quadro espansivo dei rapporti sociali oggi esistenti tra capitale, lavoro e natura, discende cioè dall’ideologia della diseguaglianza, della supremazia dell'uomo sulla natura e del denaro come unico indicatore di benessere oltre che di accesso al consumo. Se vogliamo superare allora questa crisi non basta né la vecchia soluzione socialdemocratica di razionalizzare dall'alto produzioni, consumi, tecnologie, processi inquinanti, scambi commerciali e mediazioni finanziarie né la diffusione dal basso di pratiche di auto-organizzazione, di democrazia partecipativa, di mutualismo, di economia solidale/sociale, di economia della condivisione ma occorre invece rovesciare un modello di società centrato sul profitto e sul dominio sulla natura. Si deve passare cioè da un modello basato sulle energie fossili e sullo sfruttamento e la dissoluzione delle risorse umane e naturali a un modello equo, socio-eco-sostenibile e teso alla giustizia sociale ed alla giustizia ambientale. A tal fine sovranità alimentare, sovranità energetica, sovranità territoriale dovranno essere nelle mani delle comunità1 degli abitanti dei territori trasferendo il più possibile i centri di potere e di spesa a livello locale. Queste sovranità locali associate ad una gestione partecipata dei beni comuni possono rappresentare la base di un progetto di autogoverno e di autentica democrazia. Non è facile! Bisogna acquisire una nuova mentalità, una diversa visione etica e sociale, un sistema di relazioni sociali fondato sulla solidarietà, sulla condivisione mutualistica e sull’interdipendenza e soprattutto una visione economica alternativa a quella dell’accumulazione e del possesso. Pionieri di questa altra economia potranno essere le piccole cooperative agricole, manifatturiere e di servizio, le imprese sociali locali, le botteghe artigiane, i settori relativi alla mobilità sostenibile, all'energia pulita, alla buona sanità, al riutilizzo della materia e dei suoi manufatti, all’istruzione, alla ricerca, al tempo libero. In questo quadro evolutivo è però necessario che le attività economiche, potenziate continuamente dalle innovazioni tecnologiche, siano orientate in maniera radicalmente diversa su quali beni e servizi realizzare, sul come produrli, sul dove e per chi farli, insomma è necessario che siano il risultato o l'effetto di una ri-conversione ecologica. A tal fine dobbiamo però cominciare ad immaginare il lavoro non solo come mera forza lavoro salariata, subordinata ed intercambiabile con il denaro e cioè la merce forza lavoro alienata o precaria o entrambe le cose. Il lavoro va concepito anche, se non soprattutto, come una attività utile per se stesso e per gli altri a prescindere da una eventuale retribuzione. Si pensi ad esempio all'auto-produzione, alla cura degli anziani e dei malati, all’artigianato di prossimità, all’agricoltura contadina, all’economia informale, alle relazioni di reciprocità basate sul baratto e sul dono, etc. Se vogliamo spezzare i vincoli dell'attuale sistema produttivo e sociale dobbiamo riuscire a pensare di svolgere un tipo di lavoro libero, condiviso ed orientato alla creazione di valori d’uso. Il lavoro infatti può definirsi un bene comune solo se è fondato sulla dignità e sulla gratificazione del lavoratore che lo svolge, solo se viene svolto in un rapporto solidale di collaborazione con quanti partecipano alla realizzazione dei prodotti, solo se mira in modo consapevole e partecipato alla produzione di beni e servizi necessari per le persone nel rispetto della sostenibilità ecologica. Per poter pervenire a questa visione del lavoro sarebbe però necessario che gli stessi lavoratori ottenessero con le lotte il superamento del precariato, un nuovo statuto sociale che assicuri previdenza ed assistenza, un lavoro non parcellizzato ed alienante, una riduzione delle ore lavorate a parità di retribuzione, una qualità ed eco-sostenibilità dei processi e dei prodotti. Ma in un’economia globalizzata (con l'estensione dei mercati e dei produttori e con la fluidità dei capitali) basata sulla crescita (con la frammentazione dei cicli produttivi e la segmentazione spinta dei cicli lavorativi) ed in una fase storica di debolezza dei lavoratori il lavoro stabile, la sostenibilità dei processi e dei prodotti e la diminuzione del tempo di lavoro a parità di retribuzione risultano inammissibili prima che inattuabili. L'economia vigente infatti fonda il reddito sulla produttività e sulla competizione che escludono riduzioni di orario a parità di salario, occupazioni stabili, organizzazioni del lavoro gratificanti e non alienanti, adeguate misure di sicurezza, eco-sostenibilità della produzione, non esternalizzazione dei costi ambientali. Nella fase attuale ci potrebbero però essere obiettivi, attività e proposte “attuabili” che potrebbero migliorare le condizioni di vita delle persone, modificare in positivo i rapporti di forza e traghettare gradualmente il mondo del lavoro in un contesto più articolato, aperto ed innovativo sul concetto e sulla pratica del lavoro. In particolare mi riferisco a quattro strumenti socio-economici : il reddito di cittadinanza le ERT2 (Empresas Recuperadas por sus Trabajadores) le cooperative a proprietà sociale (comune) la conversione dei luoghi abbandonati in comunità sociali Sul primo non aggiungo nulla all'ottimo documento di presentazione della legge regionale di iniziativa popolare sul RMG se non quello di considerare anche questo ulteriore valore aggiunto che il reddito di cittadinanza porta con sé. Alle ERT, soprattutto nel Mezzogiorno, potrebbero ispirarsi i tanti lavoratori espulsi dalle fabbriche chiuse e/o in via di chiusura anche grazie al coinvolgimento delle comunità territoriali, delle reti di comitati e dell'eventuale supporto fornito loro dalle competenze volontarie presenti nelle Università e nei Centri di ricerca. Le imprese recuperate dai loro lavoratori hanno solitamente la forma legale di una cooperativa, in quanto è l'unica forma possibile per registrare un'impresa di proprietà collettiva. Senza dubbio però, bisogna distinguere tra il cooperativismo comune e le imprese recuperate3. Anche se nella maggior parte dei casi è certamente più piacevole lavorare in una cooperativa rispetto ad una impresa, questo non può farci dimenticare le problematiche del cooperativismo. Quest'ultimo non mette quasi mai in discussione la proprietà dei mezzi di produzione, proprietà che consente di partecipare alle sedi decisionali e alla suddivisione dei guadagni. Da questo punto di vista nel quadro dell'economia capitalistica le cooperative realizzano un passo in avanti rispetto alla proprietà dei mezzi di produzione, ma non rappresentano certo un'alternativa al capitalismo. Svolgere attività economiche dentro un'economia capitalistica senza seguirne le regole è una cosa molto difficile. Se tutte le cooperative fondate nel '900 continuassero tutt'oggi ad essere solidali e controllate dai loro lavoratori, costituirebbero una parte importante dell'economia. Eppure non lo fanno. La maggioranza delle cooperative abbandona gradualmente i propri ideali facendo sempre più passi indietro rispetto ad essi. In molti casi quando raggiungono certe dimensioni le cooperative vengono acquisite da investitori o adottano loro stesse quelle logiche. Gli operai che fondano una cooperativa di produzione, stretti dalla competizione e dalla produttività, utilizzano tutti i metodi che permettono all'impresa di far fronte ai suoi concorrenti nel mercato e si vedono così costretti ad assumere loro stessi il ruolo di imprenditori capitalisti, trasformando le cooperative di produzione in imprese puramente capitaliste. Nella maggior parte dei casi è impossibile produrre e vendere più delle imprese capitaliste e a minor costo, insomma competere con esse. Il settore economico, cooperativo e solidale è destinato a crescere sempre di meno rispetto a quello privato. Senza un attributo di proprietà comune (sociale) la solidarietà tra cooperative è destinata a scomparire. Ogni cooperativa tende a vedersi come impresa che deve competere con le altre ed il neo-spirito imprenditoriale annulla il tentativo di costruire una economia controllata dai lavoratori e dalle comunità. A differenza delle normali cooperative quindi le ERT sono proprietà collettive senza nessuna possibilità di proprietà individuale; tutti i lavoratori hanno la stessa parte di proprietà e lo stesso potere decisionale. Esse propongono un'alternativa al capitalismo basata essenzialmente sull'idea di forme di proprietà collettive (sociali). I mezzi di produzione non sono considerati di proprietà privata (appartenenti a individui o gruppi di azionisti), ma sono di proprietà sociale, amministrata direttamente dai lavoratori ma inclusiva della partecipazione di comunità, di altri centri di lavoro ed anche eventualmente dello Stato. In continuità con l'esperienza delle ERT andrebbe stimolato il sostegno (anche attraverso crediti agevolati ed agevolazioni fiscali) a forme aziendali di tipo cooperativo a proprietà comune (sociale). A tal fine sarebbe auspicabile la pubblicizzazione della Cassa Depositi e Prestiti volta ad operare crediti no-profit per la crescita socio-ambientale ed a fornire l'accumulazione originaria necessaria a sostenere recuperi di aziende in crisi ed a costituire nuove cooperative comuni. Per la realizzazione di cooperative comuni di produzione e di servizio sarebbe anche necessaria la diffusione delle non poche esperienze oggi in atto di occupazione di luoghi abbandonati da parte di comitati e di comunità e della loro conversione in comunità sociali che, oltre a sviluppare nel territorio pratiche di mutualismo e di solidarietà, di laboratorio e di tempo libero, svolgano un ruolo di attivazione, realizzazione ed inclusione di cooperative comuni supportate dalla comunità e dalle reti solidali del territorio. ----------------------------------------------------------------------------------------------------------------- 1) le tematiche dell'ambiente, della sicurezza, della qualità della vita e del territorio hanno molto accresciuto il senso di appartenenza delle persone ai luoghi in cui vivono, ai loro quartieri e alle loro città. Si è determinato cioè un nuovo legame tra i singoli cittadini ed il territorio, inteso sia come luogo fisico sia come dimensione socio-culturale, in cui contano i livelli dell'ambiente, della vivibilità e delle reti di relazioni. Un territorio insomma potenzialmente pronto a difendere la propria coesione, i diritti dei propri abitanti, dei lavoratori, dei valori della comunità di appartenenza . Un territorio che, nei conflitti sul lavoro e sui beni comuni cercano soluzioni che salvaguardano entrambi, assumendo il lavoro e l'ambiente come due beni comuni da valorizzare e difendere insieme. Occorre cogliere in questi conflitti territoriali non solo gli aspetti economici e sociali, ma anche quelli culturali, antropologici e simbolici da cui bisogna partire per trasformare gli abitanti di un territorio in una comunità fornita di una propria soggettività sociale e politica. 2) Durante la crisi economica finanziaria del 2008 ci furono varie occupazioni di fabbriche in Francia, Italia, Turchia, Spagna, Svizzera, Germania, Grecia, Turchia, Tunisia, Egitto, Stati Uniti e Canada. Nella maggior parte dei casi l'occupazione da parte dei lavoratori è stata una strategia di lotta e non un passo verso il controllo operaio. In molti casi le occupazioni e le lotte, che erano sorte spontaneamente contro la chiusura improvvisa o i massicci licenziamenti, si sono smottate senza un risultato concreto. Per quanto attiene poi l'America Latina nel 2014 c'erano 311 imprese recuperate dai loro stessi lavoratori e lavoratrici (ERT) in Argentina, dozzine di ERT in Brasile, Uruguay e Venezuela, e in minor numero anche in quasi tutto il resto del continente. In Italia due sono state le esperienze più significative: Officine Zero a Roma e la Ri-Maflow a Milano. 3) Come conseguenza della crisi, le occupazioni e i recuperi vengono fatti dai lavoratori come reazione alla chiusura dell'azienda o alla delocalizzazione della produzione. I lavoratori difendono accanitamente il loro posto di lavoro sapendo che le prospettive di incontrarne un altro sono praticamente nulle. In questa situazione i lavoratori non si limitano a manifestare ma a prendere la situazione in mano ed a costruire relazioni sociali sul territorio. Molto spesso capita che le fabbriche recuperate si reinventano anche attraverso la costruzione di legami con comunità vicine e con gli altri movimenti. E' però necessario stabilire alcuni criteri di base rispetto alle fabbriche recuperate. Innanzi tutto è importante inquadrare i recuperi non come un processo meramente economico-produttivo, ma come una operazione socio-politica; diversamente, perderemmo il nesso con il carattere alternativo al capitalismo delle imprese recuperate. La maggior parte delle fabbriche occupate invece ha adottato la struttura di cooperativa tradizionale. Molte, se non la maggioranza, hanno gerarchie interne e quote di proprietà individuali, distribuzioni disuguali ed azionisti esterni. Definire queste imprese come imprese recuperate riduce il concetto di recupero “sistemico”: ciò che cambia è solo il numero dei proprietari, alcuni dei quali anche soci lavoratori. Quindi per queste imprese non sembra appropriato il termine “recuperate” visto che non hanno realizzato un cambio di prospettiva rispetto all'organizzazione della produzione e della società.
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